Brian Stableford - Il giogo del tempo

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Specialista di mondi esotici e contaminati, Brian M. Stableford ci porta in un tempo in cui l’umanità sarà tornata alla superstizione e alla barbarie. Ma in quel mondo d’ombre circolano strane voci sulla prodigiosa scienza degli antichi. Bisogna ritrovare il Viaggiatore del tempo! Una pericolosa avventura aspetta Matthew e John, due pellegrini disposti a tutto pur di trovare quel mitico superstite… Il salvatore.

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Mi ricordai che l’uomo non ci aveva ancora spiegato perché viveva lì, sebbene non mi avesse dato l’impressione di voler evitare la domanda.

— Di preciso che cosa fate qui? — domandai.

— Sono una guida — rispose con una calma esasperante. Non stava cercando di fare il difficile, lo vedevo. Credeva in quello che diceva.

— Eccoci arrivati — disse, mentre un’ombra alta si profilava nella nebbia. Ebbi appena il tempo di notarla e subito venimmo invitati a entrare.

La sua casa era linda come i suoi vestiti e tutto era in perfetto ordine. Era davvero la casa più accogliente che avessi mai visto in tanti anni di vagabondaggi.

Ci sedemmo sopra poltrone di epoca indefinibile, morbide e molleggiate, e sorseggiammo un buon tè da tazze che dovevano avere almeno cent’anni.

— Una cosa meravigliosa — dissi. — Ma perché quaggiù?

L’uomo rise. — E dove, altrimenti?

— In alto, sulle montagne. Se il Tuono è così bello come dite, perché non là?

— Perché questo è il crocevia del mondo. Io sono la guida e me ne prendo cura.

Ebbi un’intuizione improvvisa. — Quante strade si dipartono da qui?

— Sei.

— E quante altre attraversano la valle?

— Trenta.

— Trenta? Ma perché?

Conrad non sembrava avere nessuna risposta a questa domanda e la vacuità della sua espressione pareva dire semplicemente: “Perché no?”.

— Ma non portano in nessun luogo — dissi. — Si devono interrompere tutte ai margini della valle, sulle creste tra i picchi.

Parve un po’ sconcertato, come se avessi detto qualcosa di sconveniente che non poteva essere affrontato in una conversazione educata. — “Ora” non più — ammise. — Ma questo è sempre il crocevia del mondo.

— E voi dirigete il traffico?

— Esatto. Posso dirvi in quale direzione si trova qualsiasi città del mondo e quanto dista.

— Langley — dissi. Era la piccola cittadina dov’ero nato.

— Da quella parte. — Indicò con la mano la direzione. — Duecentosessantadue chilometri.

La distanza era del giusto ordine di grandezza e poteva essere precisa. Anche la direzione andava bene. Gli credetti.

— Parigi — dissi.

— Di là — annunciò sicuro di sé. — Seicentosessantun chilometri.

— Ma a che serve se le strade non vi arrivano più? — domandò John.

Conrad parve sofferente, come se gli avessero pestato la punta dei piedi. — È il mio lavoro — disse.

Non tanto un lavoro, decisi, quanto uno scopo di vita. Forse uno scopo preso a prestito, certamente futile, ma sufficiente per “sostenere” un uomo. Come un Dio che plasmava statue. Come un uomo che si definiva “il Sole”. Come il confratello dell’Uomo Futuro. Come un uomo con un fratello più giovane. Ma non come la Lucciola, che aveva solo un sogno.

— Da che parte è Hawkeyrie? — chiese John.

— Da quella parte — rispose l’uomo, felice di poter esserci utile. — Undici chilometri, non di più. E la strada ci arriva davvero — aggiunse con orgoglio. Senza dubbio, indirizzare sulla strada giusta due viandanti rendeva perfetta la sua giornata.

9. Il Picco Tonante

Raggiungemmo Hawkeyrie prima di notte, ma scoprimmo, con grande dispiacere di John, che Conrad aveva ragione: l’uomo che viaggiava nel tempo aveva proseguito inerpicandosi in direzione del Picco Tonante verso un rifugio di pietra in prossimità della vetta.

Così fummo costretti a passare un’altra notte insonne. Avendo dormito poco la notte precedente, John era già piuttosto irritabile, e poiché l’imminenza del confronto con il viaggiatore nel tempo minacciava di privarlo di un’altra notte di sonno, la sua irrequietezza divenne pressoché insopportabile. Dormimmo a sprazzi su due minuscole brande di una pensioncina. Hawkeyrie era un paese tranquillo, ma non aveva quell’aria lugubre della locanda dove avevamo trascorso la notte precedente.

Fui comunque felice quando ci lasciammo alle spalle il villaggio e ci ritrovammo nuovamente in marcia verso quella che ormai doveva essere l’ultima tappa del nostro viaggio.

La strada era ripida ma non eccessivamente difficile. Su entrambi i versanti il bosco e la vegetazione erano talmente fitti da sembrare innaturali, ma poi pensai che quel fianco del Picco Tonante era l’unico dei tre monti a essere esposto a sud.

La giornata era calda e l’aria piacevolmente carica dei profumi di fine estate.

Stavo già cominciando ad accantonare i ricordi del recente passato per godere nuovamente a pieno della vita, quando una freccia sbucò dal nulla e si conficcò nel cranio di Darling.

La vecchia giumenta si accasciò senza emettere alcun suono. Rimasi atterrito alla vista di quel cadavere immobile sorretto dalle stanghe del carro, e le redini mi scivolarono dalle mani.

Con un gesto rapido, senza nemmeno alzare la testa, John aveva sollevato la balestra caricandola con un movimento fluido, ma ci voleva talmente tanto tempo per tendere la corda di quel dannato arnese che comunque non avrebbe mai avuto modo di usarlo.

— Getta via la balestra — ordinò una voce che proveniva dall’intricato sottobosco ai margini della strada. Mi voltai cercando di scrutare tra le fronde per individuare la persona che aveva parlato, ma non riuscii a vedere nulla. John non ubbidì all’ordine ma abbassò l’arma.

Qualcosa si mosse e la richiesta venne ripetuta.

— Perché avete colpito il mio cavallo? — gridai. — Non c’era alcuna ragione per farlo. — Silenzio.

— Non abbiamo nulla di valore — aggiunsi.

L’arciere sbucò da un folto cespuglio. Era una donna vestita con abiti logori e un pastrano che sembrava ottenuto unendo le pelli di sei animali differenti.

— Il cavallo è cibo — tagliò corto. — E se non getti via quella balestra mangeremo anche te.

— Cibo! — esclamò John incredulo. — Ma c’è selvaggina in abbondanza in questi boschi. Il cibo non manca a Hawkeyrie!

Appena la donna sollevò la balestra per prendere la mira, John smise di parlare per gettare la sua fuori dal carro.

— Non c’è nessun bisogno di andare in giro ad ammazzare i viaggiatori e i loro cavalli — aggiunse.

— Non sono una cacciatrice — rispose duramente la donna. — Ho un bambino a cui pensare. Non ho tempo di procurarmi la carne in altro modo. Se si tratta del cavallo di un viandante, peggio per lui. E comunque il mio è figlio di un viandante.

— Niente marito? — domandò John.

La donna gli diede un’occhiata severa. — Mai avuto. Un paio d’anni fa è passato di qui uno straniero. Ha sempre detto che sarebbe tornato. E l’ha anche fatto tre giorni fa. Ma non gli interessano i bambini. Ha altre cose per la testa.

— Quest’uomo ha mai parlato di viaggi nel tempo?

— Non ha mai smesso di ripeterlo — disse la donna con disgusto. — Era pazzo, e lo è ancora.

— Dov’è?

— Perché? Siete suoi amici? — Ora la freccia era puntata verso la mia pancia. Ebbi un sussulto.

— No — mi affrettai a dire.

— Ma lo stiamo cercando — aggiunse John.

— È alla capanna, sulla cima — disse come se sperasse di non vederlo mai più ridiscendere. — Ma non ci starà per molto. Un giorno o due e poi se ne andrà di nuovo. Non ha tempo per noi.

— Puntate altrove la freccia — le chiesi. — Non vi faremo alcun male.

— No, voi no. Potete scalare la montagna. — Si fermò rivolgendomi uno sguardo di sfida. Poi abbassò l’arma. — Mi spiace per il cavallo — disse — ma ho terribilmente bisogno di carne.

— Non vi aiuterebbero a Hawkeyrie?

— Non amano gli stranieri.

— Ma di certo… — cominciai a dire.

— Non ho intenzione di chiedere l’elemosina — mi interruppe lei brusca.

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