Clifford Simak - La strada dell'eternità

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Jay Corcoran e Tom Boone sono amici da anni e in certe occasioni formano una coppia perfetta. Jay è un esperto nel raccogliere informazioni su chiunque, e Tom sa girare dietro gli angoli anche quando non ci sono. La scoperta di una stanza che non esiste sarà solo il punto di partenza ideale per un viaggio destinato a scaraventare i due amici in un'avventura ambientata nel più lontano passato e nel più remoto futuro. Incontreranno così una strana famiglia di esiliati che include il bizzarro Henry, detto anche Fantasma (ma non fatevi sentire a chiamarlo in questo modo dagli altri membri della famiglia), il Popolo dell'arcobaleno, che possiede oscure risposte ad ancora più oscure domande, l'ambigua figura nota come Cappello, messaggero di forze sconosciute e al tempo stesso giocattolo di un lupo preistorico, e soprattutto gli Infiniti, che vogliono tramutare l'uomo in una intelligenza priva di corpo. Il tutto, fra robot che vogliono essere utili all'uomo, e lungo quella che è chiamata la Strada dell'eternità.

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— Utensili, per prima cosa.

— Avete i vostri utensili. Avete zappe e vanghe, asce e seghe, picconi e palanchini…

— Armi — disse Conrad. — Armi migliori di quelle che abbiamo adesso. Archi migliori. Frecce che vanno dritto. Questo metallo è forte ma flessibile. Eventualmente, balestre. Aste e lance. Catapulte.

— Ti diverti! — esclamò Horace. — Hai trovato un mucchio di oggetti nuovi, e ti vuoi divertire a…

— Insieme — continuò Conrad — possiamo costruire un carro per portare l'acqua e il cibo che raccogliamo. I nostri robot possono tirare il carro e un'eventuale carrozza. E potremmo anche costruire una motrice a vapore…

— Tu sei pazzo! — esclamò Horace.

— Penseremo a tutto — disse Conrad. Metteremo al lavoro il cervello.

Nei giorni successivi lo misero al lavoro. Fecero dei conciliaboli. Tracciarono disegni sulla sabbia. Andarono a scavare il carbone in un giacimento posto a un chilometro di distanza, prepararono una forgia e si misero all'opera. Horace era più nervoso che mai. Emma, ricordando le giornate passate sull'altopiano, era contenta di starsene in un posto dove c'era l'acqua e non batteva il sole. Timothy si recò in giro a esplorare.

Risalì il sentiero che portava all'altopiano e passò lunghe ore nell'esplorazione delle rovine della città. Frugando nella sabbia e nella polvere trovò di tanto in tanto qualche manufatto: armi primitive; sbarre lunghe fino a un metro fatte di metallo, con tracce di ruggine; ceramiche dalla forma strana, che potevano essere idoli. Si sedette a guardare ciò che aveva trovato, ma non riuscì a cavarne un senso. Comunque, le rovine esercitavano su di lui uno strano fascino, e vi ritornò varie volte.

Laggiù, chissà quanti millenni prima, era vissuta una forma di vita intelligente che aveva avuto una società e un'economia evoluta. Che tipo di intelligenza fosse stata le rovine non lo lasciavano capire. Le porte degli edifici erano circolari e talmente piccole che Timothy vi entrava a malapena. Le stanze erano talmente basse da costringerlo a camminare carponi per esplorarle. Non c'erano scale che conducessero ai piani superiori, ma soltanto pertiche metalliche troppo lisce per arrampicarsi.

Alla fine si decise a salire sulla massiccia collinetta tronca. I suoi fianchi erano pieni di massi in equilibrio precario, che quando li sfiorava minacciavano di cadergli addosso. Tra un masso e l'altro c'era della ghiaia scivolosa, su cui doveva salire con attenzione, per non smuovere i massi.

Forse, si era detto, gli abitanti della città avevano messo in cima alla collina un posto di guardia, a scanso di possibili invasioni da parte di popolazioni straniere, o per controllare le mandrie, o per scopi che non riusciva a immaginare. Ma in cima trovò solo una distesa di rocce, sabbia e argilla su cui non cresceva nessuna pianta; sulla roccia non c'era nessun lichene. Il vento fischiava attorno a Timothy, che giudicò quella vetta il fazzoletto di terra più desolato che avesse visto.

Sotto di lui si stendeva un panorama affascinante sui colori giallastri dell'altopiano che avevano attraversato si stagliavano altre montagnole come la sua, più scure del piano; a ovest si scorgeva il canyon, rosso come una ferita, e al di là del canyon il profilo spezzato di una catena di montagne azzurrine.

Raggiunse il bordo occidentale della spianata rocciosa e studiò il canyon sotto di lui, cercando qualche traccia del lavoro dei robot. Ma non riuscì a vedere alcun segno di attività. La lunga striscia blu del fiume serpeggiava sul fondo del canyon, in mezzo a due piccoli bordi verdi di vegetazione. Dietro il fiume, la parete rossa del canyon saliva fino a confondersi con l'intenso colore giallo dell'altipiano.

Ormai era il momento di scendere dalla montagnola: doveva scendere con molta attenzione, poiché la discesa poteva essere più pericolosa della salita.

Udì alle sue spalle il rumore di una pietra smossa, e si affrettò a voltarsi. Il cuore gli balzò in gola. Il mostro assassino correva verso di lui, e dietro il mostro c'era Spike, che si muoveva velocemente in direzioni casuali.

Timothy si affrettò a scansarsi per non farsi scorgere dal mostro. Questi, che probabilmente non aveva visto l'abisso che si spalancava sotto di lui, si lanciò a sua volta di lato, puntando sull'umano. Rapidamente, Spike si mosse in modo da spingerlo altrove, e il mostro si voltò nella nuova direzione. Timothy inciampò e cadde. Con la coda dell'occhio vide che il mostro, benché lottasse disperatamente per fermarsi, oltrepassava il ciglio del precipizio e cadeva. Per un attimo parve rimanere sospeso a mezz'aria, poi scomparve.

Timothy si rialzò e corse al ciglio del precipizio in tempo per vedere il mostro piombare contro un masso, sul fianco della montagnola, rimbalzare nell'aria, e infine frantumarsi. I frammenti volarono in tutte le direzioni e caddero in fondo al canyon, suddividendosi in pezzi sempre più piccoli.

Timothy si voltò verso Spike, che era a pochi passi da lui: lo vide intento a danzare una danza di vittoria, girando su se stesso, balzando nell'aria, scivolando sul terreno.

— Tu e i tuoi maledetti giochi! — gridò, pur sapendo che se era stato un gioco, era stato un gioco mortale.

— Dunque — proseguì poi — finalmente l'hai fatto fuori. Non hai mai abbandonato la tua preda. Quel primo giorno lo hai spinto verso di noi, sperando che Horace gli sparasse. Poi, anche quando quel piano è andato in fumo, hai continuato a dargli la caccia.

Spike si era fermato, e si limitava a oscillare avanti e indietro.

— Spike — gli disse Timothy. — Ti abbiamo sottovalutato. In tutti questi anni ti abbiamo sempre preso per un pagliaccio. Vieni, scendiamo a raggiungere gli altri. Saranno lieti di vederti.

Ma quando si avviò verso la strada da cui era salito, Spike si mise davanti a lui. Timothy si diresse da un'altra parte, ma Spike gli bloccò la strada anche questa volta.

— Maledizione, Spike — gridò Timothy. — Adesso ti metti a spingere me? Non lo sopporto.

Udì un debole ronzio e si voltò per, vedere che cosa fosse. Era un lucente velivolo che scendeva nella loro direzione: era simile a quello che li aveva spiati il giorno del loro arrivo. Toccò delicatamente terra e non si mosse più. La parte superiore si sollevò con lentezza, e Timothy poté vedere la creatura che lo pilotava: un mostro. Testa molto piccola, spalle esageratamente larghe. Quello che sembrava un naso si suddivideva in due antenne gemelle. Dalla nuca spuntavano alcune penne di colore rosso che sembravano la cresta di un uccello. Un singolo occhio composito sporgeva tra il naso e la cresta rigida. L'alieno si voltò verso Timothy ed emise una serie di pigolii.

Timothy fece qualche passo in direzione del velivolo, per vedere il suo mostruoso pilota. Provava una forte curiosità. Di fronte a lui c'era una forma di vita intelligente, di ordine superiore a quello degli abitanti della città in rovina. Spike raggiunse Timothy e si mise al suo fianco, poi passò rapidamente dietro di lui e si mise dall'altra parte, per spingerlo in avanti.

— Non c'è bisogno di spingermi — disse Timothy, ma Spike continuò a spingere e a girare su se stesso. Timothy fece qualche passo, dicendosi che era lui a volersi avvicinare per vedere il pilota: non era Spike a costringerlo…

Raggiunse la parte posteriore del velivolo e toccò il metallo. La superficie era tiepida e liscia. All'interno sotto la calotta sollevata, c'era quello che sembrava uno scompartimento per passeggeri. Non c'erano sedie, ma il pavimento e le pareti erano imbottiti e si scorgevano dei tubi metallici che potevano servire come mancorrenti.

Comunque, Timothy non aveva intenzione di entrare nel velivolo. Si voltò a guardare cosa facesse Spike, e vide che si precipitava contro di lui. Inciampò contro il bordo dell'apparecchio e cadde all'indietro. Svelto come il fulmine, Spike balzò dentro, il portello si chiuse e l'apparecchio si staccò da terra.

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