Clifford Simak - La strada dell'eternità

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La strada dell'eternità: краткое содержание, описание и аннотация

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Jay Corcoran e Tom Boone sono amici da anni e in certe occasioni formano una coppia perfetta. Jay è un esperto nel raccogliere informazioni su chiunque, e Tom sa girare dietro gli angoli anche quando non ci sono. La scoperta di una stanza che non esiste sarà solo il punto di partenza ideale per un viaggio destinato a scaraventare i due amici in un'avventura ambientata nel più lontano passato e nel più remoto futuro. Incontreranno così una strana famiglia di esiliati che include il bizzarro Henry, detto anche Fantasma (ma non fatevi sentire a chiamarlo in questo modo dagli altri membri della famiglia), il Popolo dell'arcobaleno, che possiede oscure risposte ad ancora più oscure domande, l'ambigua figura nota come Cappello, messaggero di forze sconosciute e al tempo stesso giocattolo di un lupo preistorico, e soprattutto gli Infiniti, che vogliono tramutare l'uomo in una intelligenza priva di corpo. Il tutto, fra robot che vogliono essere utili all'uomo, e lungo quella che è chiamata la Strada dell'eternità.

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— No, anche ora per non correre rischi. Gli altri aspettano che giunga il resto della compagnia.

— Benissimo, grazie Toby — disse Conrad. — Avete agito saggiamente. — Poi, rivolto a Horace: — Siete pronti a proseguire?

— Eravamo pronti fin dal momento della partenza — disse Horace. — Non abbiamo deciso noi di starcene qui fermi a perdere tempo.

La colonna si rimise in movimento; i tre umani ripresero il cammino in mezzo alle due file dei robot, e l'esploratore che aveva portato il messaggio ritornò di corsa in avanscoperta. Giunti al monastero, procedettero a fianco di una delle pareti. Visto da vicino, l'edificio sembrava alquanto malridotto. Le pareti esterne, di lega metallica, cominciavano a coprirsi di ruggine. Non c'erano finestre, soltanto porte, disposte a intervalli regolari, e tutte chiuse.

Giunsero alla porta che era ancora aperta. Dava accesso all'ala principale dell'edificio.

— Attendiamo qui — disse Conrad. — Invierò una squadra a controllare, e poi potremo entrare anche noi.

Attesero a lungo. Infine, un robot si affacciò sulla soglia e fece segno di avvicinarsi.

— Entriamo, ma, per favore nessuna disdicevole fretta — disse Conrad.

Entrarono senza disdicevole fretta. Il gruppo di robot si allargò per perlustrare l'edificio.

L'interno era rischiarato da una luce verde, pallida e fredda. Timothy cercò la fonte luminosa, ma non riuscì a individuarla. La luce, si disse, era emessa dalle pareti e dal soffitto.

All'interno del monastero non c'era molto da vedere. La vasta sala in cui erano entrati sembrava coprire l'intera larghezza dell'edificio principale ed era vuota. Qua e là, alcune porte conducevano alle sale che erano state aggiunte in un secondo tempo alla struttura originale. I robot entravano in ognuna e facevano ritorno quasi subito, come a indicare che non avevano trovato niente.

Quando la sua vista si abituò alla debole luce verde, Timothy notò una parte del pavimento segnata da depressioni più o meno grandi, simili a cerchi asimmetrici o a fori scavati con il cucchiaio di una pala meccanica. Ma non si vedeva alcun tipo di arredamento: né scrivanie, né sedie, né cestini, né archivi, né macchine.

Certo! si disse Timothy. Lui aveva pensato in termini umani, mentre quello in cui erano entrati era un edificio alieno, costruito a misura degli alieni. Non poteva aspettarsi di trovare scrivanie e sedie. Ma avrebbe dovuto trovare altri oggetti: oggetti alieni, mentre invece non ne scorgeva nessuno.

Emma richiamò la sua attenzione. — Guarda in alto — gli disse. Lui guardò nel punto indicato e vide alcune strane forme che pendevano dal soffitto. Ce n'erano a centinaia, appese a corde e funi. Dondolavano lentamente, sospinte dalla debole corrente d'aria che circolava nell'edificio.

— Assomigliano agli Infiniti — disse Emma.

— Se lo sono — disse Conrad, fermo a pochi passi di distanza — non hanno vita. Non riesco a percepire vita. Se ce ne fosse, i miei sensi me lo direbbero. Se sono Infiniti, sono morti e li hanno appesi perché si mummificassero.

Dal momento in cui avevano messo piede nell'edificio, non si erano allontanati dall'ingresso. Ora, dall'interno della costruzione, giunse un brusio di voci agitate.

— I ragazzi hanno trovato qualcosa — disse Conrad. — Andiamo a vedere.

I tre uomini e il robot corsero verso il punto da cui giungevano i rumori. Videro che gli altri robot avevano formato un cerchio intorno a qualcosa che destava i loro mormoni di stupore.

— Andiamo avanti — disse Conrad, brusco. — Che cosa succede? Fate largo.

I robot si spostarono per lasciarli passare. In mezzo alla sala c'erano Spike e il mostro, intenti a danzare una sorta di strano balletto aggraziato. Ma non si capiva se fosse una vera danza o un duello in cui ciascuno attendeva che l'avversario calasse la guardia. Facevano piccoli passi e accennavano movimenti, velocissimi, fintando e poi spostandosi immediatamente.

— Indietro, tutti quanti! — gridò Horace. — Me ne occupo io!

Si portò il fucile alla spalla, ma in quell'istante l'edificio oscillò violentemente. Gli umani e parte dei robot caddero a terra. Timothy scivolò sul pavimento inclinato, e proprio allora sentì chiudersi una porta.

Finì in uno dei fori del pavimento. Quando cercò di uscirne, si accorse che la sua superficie era talmente liscia da non permettergli la presa.

Bruscamente, l'edificio cessò di tremare e Timothy si guardò attorno. Il foro in cui era caduto era uno di quelli che parevano scavati da un cucchiaio. Era grosso come il suo corpo; pensò che se si fosse raggomitolato avrebbe potuto dormirvi comodamente. E forse era proprio quella la funzione dei fori: i letti degli Infiniti. Dato che erano più piccoli degli umani, potevano starci comodamente.

— Non riuscite a uscire? — domandò Conrad, curvandosi su di lui.

— Scivolo. Per favore, datemi una mano.

Conrad gli tese la mano e lo aiutò a rimettersi in piedi.

— Forse siamo nei guai — disse il robot. — Sospetto che ci sia stato uno spostamento.

— Spostamento?

— L'edificio si è mosso.

— Sono finito a terra.

— Credo che sia stato più di un sussulto — disse il robot. — Credo che ci siamo spostati nello spazio.

Qualcuno aveva aperto la porta da cui erano entrati, e i robot si precipitavano in quella direzione con l'intenzione di uscire dall'edificio. Horace era stato tra i primi a precipitarsi fuori, ma ora si fece strada in mezzo alla corrente di robot in uscita e ritornò verso Timothy. Brandendo il fucile, gridò: — L'edificio era una trappola. Ci ha attirati al suo interno per portarci in un altro luogo. — Si rivolse a Conrad: — Hai idea di dove ci troviamo?

Conrad scosse la testa. — Purtroppo, no — disse.

Timothy era confuso, non capiva cosa succedesse, cosa avesse detto Horace. — Altro luogo? — domandò. — Non dovrebbe esserci problema. Tutt'al più, qualche chilometro…

— Sciocco — disse Horace, irritato. — Non è quello che volevo dire. Non chilometri. Anni luce, probabilmente. Non siamo più sulla Terra. Da' un'occhiata fuori.

Così dicendo, lo afferrò per il braccio e lo spinse in direzione della porta.

— Va' a vedere!

Timothy, sospinto da Horace che premeva contro la sua schiena, raggiunse la porta, barcollando.

Era il tramonto. O l'alba. L'aria era fresca e frizzante, e il cielo aveva un aspetto strano. Il territorio intorno a loro pareva formare una serie di pieghe: una fila di collinette tonde terminava in un'altra fila di collinette più alte, e così via, fino all'orizzonte. Sull'orizzonte era sospesa un luna giallastra e rigonfia.

Chissà perché, si domandò Timothy, Horace l'aveva scambiato per un paesaggio alieno? A lui sembrava un posto come tanti altri, tranquillo e senza particolari caratteristiche. L'aria era respirabile e la gravità era quella solita della Terra.

Uno dei robot domandò: — Siete usciti tutti? Tutti fuori del monastero?

— Sono usciti tutti — rispose un altro robot.

— I comandi — gridava Horace. — Qualcuno ha visto il quadro dei comandi?

— Comandi?

— Sì, qualcosa che metta in azione il monastero. Per guidarlo e per farlo muovere.

— Nessuno li ha visti, ne sono certo — disse Conrad. — Non è un veicolo. È un edificio. Non ci sono comandi.

— Si è mosso da un posto all'altro — gridò Horace. — Si è spostato. Altrimenti non saremmo qui.

— Comincia a rompersi — esclamò un altro robot. — Si spezzano le giunture. Ascoltate.

Tesero l'orecchio, e si poté udire distintamente il cigolio della struttura: il rumore del metallo arrugginito che cede.

— Ne è rimasto in piedi appena a sufficienza per portarci qui — disse Conrad. — Ma adesso è finito. Ancora qualche anno, e non si sarebbe più mosso.

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