Clifford Simak - La strada dell'eternità

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La strada dell'eternità: краткое содержание, описание и аннотация

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Jay Corcoran e Tom Boone sono amici da anni e in certe occasioni formano una coppia perfetta. Jay è un esperto nel raccogliere informazioni su chiunque, e Tom sa girare dietro gli angoli anche quando non ci sono. La scoperta di una stanza che non esiste sarà solo il punto di partenza ideale per un viaggio destinato a scaraventare i due amici in un'avventura ambientata nel più lontano passato e nel più remoto futuro. Incontreranno così una strana famiglia di esiliati che include il bizzarro Henry, detto anche Fantasma (ma non fatevi sentire a chiamarlo in questo modo dagli altri membri della famiglia), il Popolo dell'arcobaleno, che possiede oscure risposte ad ancora più oscure domande, l'ambigua figura nota come Cappello, messaggero di forze sconosciute e al tempo stesso giocattolo di un lupo preistorico, e soprattutto gli Infiniti, che vogliono tramutare l'uomo in una intelligenza priva di corpo. Il tutto, fra robot che vogliono essere utili all'uomo, e lungo quella che è chiamata la Strada dell'eternità.

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— Eccoti di nuovo — disse Horace — a parlare male della tua razza.

Timothy alzò le spalle. Forse, si disse, Horace aveva ragione. Lui parlava male della sua razza. Ma la prima a denigrarsi era sempre stata la razza stessa. L'uomo era un gruppo turbolento di scimmie terricole. Nel corso della storia umana, c'erano stati la gloria e il successo, ma c'erano stati anche molti errori fatali. L'uomo aveva commesso tutti gli errori possibili.

Il sole scendeva dietro le alture. Timothy si avviò lentamente in direzione della valle, lasciando Horace. Quando raggiunse la prima fortificazione, i robot posarono la scure e si misero sull'attenti.

— Riposo — disse Timothy. — Non prestate attenzione a me. Continuate pure a lavorare. Il vostro comportamento è assai lodevole. State lavorando molto bene.

I robot ripresero il lavoro. Conrad, scorgendo Timothy, si affrettò a correre da lui.

— Signore — disse — ormai li abbiamo circondati da tutti i lati. Possiamo scorgere il bianco dei loro occhi. Che facciano soltanto un movimento, e noi caleremo su di loro.

— Ottimo lavoro, capitano — disse Timothy.

— Signore — disse Conrad — non sono capitano, sono colonnello.

— Scusate — disse Timothy. — Non volevo offendervi.

— Scuse accettate — disse il colonnello.

Dalla porta del viaggiatore Emma comunicò che la cena era pronta.

Timothy si affrettò a fare ritono. Aveva fame; non mangiava da diverso tempo.

Emma aveva messo in tavola un piatto di formaggio, un piatto di prosciutto, un grosso barattolo di marmellata e una pagnotta.

— Cercate di accontentarvi — disse ai due uomini — È tutta roba fredda. Il fornello non funziona, o, almeno, non riesco a farlo funzionare. Ho provato in tutti i modi.

— Andrà bene — disse Horace.

— Dovrete bere acqua — disse Emma. — C'è del tè e del caffè, ma senza il fornello…

— Non importa — la consolò Timothy. — Non pensarci più.

— Ho cercato della birra. Ma non ne ho trovata.

— L'acqua andrà bene — disse Horace.

Si sedettero e cominciarono a mangiare. Poteva andare peggio. Il formaggio era saporito e il prosciutto era stagionato. La marmellata era di more, ed era profumata, anche se piena di semi. Il pane era soffice, con una crosta croccante.

Emma assaggiò una fetta di formaggio e mangiò una fetta di pane e marmellata. Tra un morso e l'altro, domandò: — Cosa facciamo adesso?

— Per il momento — le disse Horace — restiamo qui. Questo viaggiatore è molto comodo. Servirà come rifugio e come base di operazione.

— Per quanto tempo? — chiese Emma. — Questo posto non mi piace.

— Resteremo qui finché non sapremo come stanno le cose. La situazione qui fuori mi sembra caotica, ma entro pochi giorni si può risolvere, e allora potremo prendere una decisione.

— Per quanto riguarda me — disse Timothy — intendo ritornare quanto prima.

— Ritornare dove? — chiese Emma.

— A Hopkins Acre. Non ho mai avuto intenzione di andarmene. E se avessi avuto il tempo di pensarci non sarei venuto via.

— Ma il mostro! — esclamò Eroma, inorridita.

— Quando ritornerò, il mostro se ne sarà andato.

— Ma perché vuoi ritornare? — domandò Emma. — Non capisco. Laggiù può essere pericoloso.

— Laggiù ci sono i miei libri — disse Timothy. — E anni e anni di appunti. Ho ancora del lavoro da fare.

— Il tuo lavoro è finito — gli disse Horace, seccamente.

— Non è finito affatto. C'è ancora molto da fare.

— Tu lavoravi per un futuro nel quale speravi. Pensavi di trovare un modo per fare tornare indietro gli uomini, per imparare dai vecchi errori per ricominciare su altre basi. Non capisci che il tuo lavoro è stato inutile? Questo è il tuo futuro, e l'umanità si è trasformata in scintille di luce. Gli Infiniti hanno terminato il loro compito e se ne sono andati.

— Ma qui ci sono ancora alcune persone — disse Timothy. — Si potrebbe ricominciare.

— Non sono sufficienti — obiettò Horace. — Alcuni qui, altri là, nascosti. Alcuni nel passato, altri nel presente. Il patrimonio genetico complessivo è troppo limitato per ripartire.

— È inutile parlarne con lui — disse Emma. — È il più ostinato della famiglia. Quando si mette in testa un'idea, non la lascia più. Per quanto tu ne discuta con lui, non riuscirai a convincerlo.

— Ne riparleremo domani — disse Horace. — Dopo un buon sonno.

Timothy si alzò. — Ci sono delle coperte? Vorrei passare la notte fuori. Il clima è ancora caldo, e dormirò sotto le stelle.

Emma gli portò le coperte. — Non allontanarti troppo — gli disse.

— Non ho bisogno di allontanarmi — disse lui.

Era caduta la notte. L'oscurità del monastero era stata inghiottita dall'oscurità che lo circondava. Su tutte le alture si scorgevano i falò dei robot, sovrastati dallo scintillio proveniente dai puntini nel cielo. Osservando attentamente, Timothy riuscì a individuare alcune stelle, ma soltanto le più luminose, poiché tutte quelle luci facevano scomparire le stelle più deboli.

Trovò un piccolo terrazzino sul fianco della collina: era sufficientemente piano e poteva servirgli per passare la notte. Posò in terra una delle coperte per non essere a contatto con il terreno e poi si coprì con l'altra.

Disteso sulla schiena, fissò i piccoli punti di luce nel cielo. Lassù c'era la fase finale della razza umana. Come segmenti di pensiero puro, gli esseri umani potevano sopravvivere all'estinzione del tempo e dello spazio alla fine dell'universo. L'intelligenza umana sarebbe rimasta intatta nel vuoto e sarebbe esistita per sempre. Esistita per cosa fare? Cercò di immaginare cosa poteva succedere dopo la fine del tempo e dello spazio. Ma non riuscì a immaginare niente.

Aveva detto a Horace che gli uomini avevano voluto accelerare l'evoluzione, che non avevano voluto attendere. Si era forse sbagliato? Le opere create dall'uomo, i sogni da lui coltivati, erano parti dell'evoluzione, alla stessa stregua del lento processo biologico che aveva portato dal primo battito di vita fino all'uomo? L'intervento degli Infiniti si era limitato a spingere l'uomo sulla strada evolutiva già a lui destinata? La prima scintilla di vita sorta nel mare primordiale era già irrevocabilmente diretta verso quelle luci che ardevano nel cielo? Che l'universo, con tutta la sua gloria e le sue meraviglie, non fosse altro che la serra in cui doveva spuntare l'intelligenza?

Se questo era vero, allora la razza umana era il popolo eletto. Eppure, il popolo eletto doveva essere più d'uno. Per non dover fare affidamento su una sola razza, doveva esserci stato il tentativo di far nascere molte forme intelligenti diverse, perché nessuna singola razza poteva essere sicura della sopravvivenza. A causa di errori, molte di queste forme di vita intelligente dovevano essersi estinte senza arrivare alla meta. Altre dovevano avere preso un indirizzo sbagliato e dovevano essere state eliminate.

Come certe creature della terra che disseminavano migliaia di uova per essere certe che almeno una parte della loro discendenza giungesse alla condizione adulta, così l'evoluzione doveva avere fatto nascere grandi quantità di razze intelligenti, per essere certa che alcune di esse, alla fine, giungessero allo sviluppo completo.

No, si disse Timothy, non poteva essere così. Erano sciocchezze, considerazioni insostenibili.

Ma perché l'umanità aveva fatto un simile passo in un momento in cui aveva saldamente in pugno le stelle e in cui era pronta a godersi i frutti del suo viaggio lungo la comoda strada della tecnologia? Perché si era fermata? Era subentrata una stanchezza razziale, un desiderio di allontanarsi dalle responsabilità che, a quel punto, l'uomo si doveva assumere? Giunto ad affacciarsi sullo spazio, e sulle possibilità senza limite che si stendevano davanti a lui, l'uomo si era tirato indietro per paura del fallimento? O per paura di qualcosa di diverso?

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