Clifford Simak - La strada dell'eternità

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La strada dell'eternità: краткое содержание, описание и аннотация

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Jay Corcoran e Tom Boone sono amici da anni e in certe occasioni formano una coppia perfetta. Jay è un esperto nel raccogliere informazioni su chiunque, e Tom sa girare dietro gli angoli anche quando non ci sono. La scoperta di una stanza che non esiste sarà solo il punto di partenza ideale per un viaggio destinato a scaraventare i due amici in un'avventura ambientata nel più lontano passato e nel più remoto futuro. Incontreranno così una strana famiglia di esiliati che include il bizzarro Henry, detto anche Fantasma (ma non fatevi sentire a chiamarlo in questo modo dagli altri membri della famiglia), il Popolo dell'arcobaleno, che possiede oscure risposte ad ancora più oscure domande, l'ambigua figura nota come Cappello, messaggero di forze sconosciute e al tempo stesso giocattolo di un lupo preistorico, e soprattutto gli Infiniti, che vogliono tramutare l'uomo in una intelligenza priva di corpo. Il tutto, fra robot che vogliono essere utili all'uomo, e lungo quella che è chiamata la Strada dell'eternità.

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— Maledizione! — ruggiva Horace. — Maledizione!

— Sono d'accordo con voi — disse Conrad, parlando senza fretta. — Ci sono dei momenti in cui va tutto storto.

Timothy si allontanò dalla folla di robot che guardavano lo spettacolo del monastero che crollava. Meglio così, si disse. Se il monastero era una sorta di viaggiatore funzionante, chissà quali pazzeschi piani potevano venire in mente a Horace. Se non altro adesso erano provvisoriamente al sicuro, e in un ambiente che gli piaceva. L'aria era buona, potevano andare dove volevano, il clima era sopportabile, e probabilmente avrebbero trovato del cibo.

In quel momento, vide, era fermo su una collinetta coperta d'erba, ma era troppo buio per vedere che tipo di erba. Vide che il cielo si stava rischiarando, alla sua destra. Horace aveva detto che si trovavano su un altro pianeta, ma fino a quel momento non gli aveva dato alcuna spiegazione. Le colline sembravano quelle della Terra. Era troppo buio per distinguere i particolari.

Qualcuno si dirigeva verso di lui: Emma. Scese a raggiungerla. — Stai bene? — le disse.

— Sto bene — rispose lei — ma ho paura. Horace dice che non siamo più sulla Terra. Dice che ci sono due lune, e la Terra non ha due lune. Io non so come sia successo.

— Due lune? Ne vedo solo una. È sull'orizzonte, a ovest. O quello che mi sembra l'ovest…

— Ce n'è un'altra sulla nostra testa — disse Emma. — Una luna più piccola.

Piegando il collo, riuscì a vederla: proprio sulla sua testa. Come aveva detto Emma era una luna piccola, meno di metà di quella terrestre. Ecco come Horace aveva capito di trovarsi su un altro pianeta…

Il monastero non aveva smesso di cigolare. A est il cielo era sempre più chiaro. Ancora pochi minuti e sarebbe spuntato il sole.

— Hai visto Spike? — domandò Emma.

— Nemmeno un segno.

— Si sarà stancato di fare con quel mostro imbecille i suoi stupidi giochi.

— Non so se erano giochi — disse Timothy.

— Che cosa potevano essere, se non giochi? Spike è sempre occupato in qualche stupido gioco.

— Già, è vero — le disse lui.

La compagnia dei robot si era raccolta in una posizione al di sotto del monastero, ma poi si era ritirata. Adesso si era recata in una zona dove il terreno era piano. Echeggiò un ordine, e i robot si schierarono subito in formazione militare.

La luce dell'alba era adesso più chiara ed era possibile guardarsi attorno. Il profilo delle colline perse la rigidezza notturna e si ammorbidi. Guardandole in precedenza, quando era ancora buio, Timothy aveva supposto che fossero colline verdi, ma ora vide che avevano un colore del tutto diverso. Erano rossicce come il mantello di un leone o di un puma, e il cielo era violaceo. Come poteva essere viola? si domandò Timothy. Non solo una parte, ma tutto il cielo?

Horace salì faticosamente fino a loro. Si fermò un po' più in basso, con il fucile imbracciato.

— Ce l'hanno fatta — disse con rabbia. — Ci hanno rapito e ci hanno portato qui, dovunque siamo.

— Ma non siamo soli — disse Emma. — Ci sono con noi i robot.

— Bella banda di imbecilli — disse Horace. — Un mucchio di pasticcioni.

— Ci potranno essere d'aiuto — disse Timothy. — Conrad mi sembra competente… riesce a produrre dei risultati.

— Abbiamo perso tutto quello che avevamo — piagnucolò Emma. — Tutta l'attrezzatura che c'era nel viaggiatore. Le coperte! E il resto! I piatti e le casseruole!

Horace le mise un braccio attorno alle spalle. — No, i robot hanno portato le coperte e un po' di equipaggiamento — disse. — In un modo o nell'altro, ce la faremo.

Singhiozzando, Emma si strinse a lui, e lui la abbracciò impacciato, battendole la mano sulla spalla. Timothy guardò la scena, anche lui imbarazzato. Era la prima volta, in tutta la sua vita, che vedeva da parte di Horace un gesto affettuoso verso sua sorella.

A est il cielo era ormai chiaro, e scorgeva che la valle era percorsa da un fiume e che sulle sue sponde sorgevano degli alberi, che salivano fino ai piedi delle colline. Si trattava di alberi alquanto particolari: sembravano felci, giganti, o giunchi, di proporzioni colossali. Sulle colline, il vegetale di colore fulvo che era l'equivalente locale dell'erba si muoveva al soffio della brezza. Sembrava un ottimo pascolo, pensò Timothy, ma a portata d'occhio non c'erano animali erbivori, né in mandrie né isolati.

Dal monastero si staccò una lastra metallica che scivolò lungo il pendio. La struttura si era ormai afflosciata su se stessa ed era ridotta a un cumulo di rottami.

Nella valle, la formazione militare dei robot si era sciolta. Rimaneva soltanto una falange: il quadrato vuoto in centro, pensò Timothy, della tradizione militare, a partire dai macedoni di Alessandro fino all'ultima resistenza di Napoleone a Waterloo. Gli altri robot correvano in tutte le direzioni come formiche uscite dal formicaio. A quanto pareva, partivano come ricognitori per esplorare la zona.

Tre di essi si diressero verso gli umani. Si disposero intorno a loro, in modo da circondarli parzialmente. Uno parlò: — Signori, signora, Conrad ci ha incaricato di scortarvi fino al nostro campo, dove sarete al sicuro.

— Secondo voi — ruggì Horace — quel quadrato vuoto sarebbe un campo?

— Stiamo cercando combustibile per accendere un fuoco. Altri sono incaricati di portare acqua e il resto che occorre.

— Va bene — brontolò Horace. — Non so gli altri, ma io ho fame.

Si avviò verso il gruppo dei robot. Emma si mise al suo fianco e Timothy gli tenne dietro.

Il sole si era ormai alzato al di sopra dell'orizzonte. Guardandosi alle spalle, Timothy notò che assomigliava al sole della Terra: tutt'al più poteva essere un po' più grande e un po' più luminoso, ma la cosa era difficile da giudicare. Per molti aspetti, il pianeta era assai simile alla Terra. Abbassando gli occhi vide che il terreno color vinaccia era coperto di erba dai fili sottili.

Dal quadrato dei robot si levò un filo sottile di fumo.

— Hanno trovato qualcosa da bruciare — disse Horace. — Forse riusciremo a fare un pasto caldo.

Quando furono all'interno del quadrato protettivo, Conrad disse loro come si erano procurati il combustibile. — Legno degli alberi di felce. Non è la migliore legna da ardere che ci sia, ma brucia, e dà luce e calore. In centro è cava, ed è circondata da una polpa fibrosa, ma questa polpa è abbastanza densa. Inoltre, abbiamo trovato del carbone.

Sollevò la mano per mostrare il carbone: alcune piccole lastre nere e lucenti.

— L'abbiamo trovato in una formazione rocciosa, accanto all'argine del fiume. Non è carbone di grande qualità; è una sorta di lignite. Viaggiando, cercheremo altro carbone, e forse potremo trovarlo migliore. Comunque, tra legno di cattiva qualità e carbone di cattiva qualità, un fuoco siamo riusciti a farlo. Sulla Terra, tutto il carbone è già stato estratto e bruciato da tempi immemorabili.

— Viaggiare? — domandò Emma. — Dove dobbiamo andare?

— Dobbiamo allontanarci da qui — disse Conrad. — Qui non possiamo rimanere. Dobbiamo trovare un posto che offra cibo e riparo.

— Cibo?

— Sì, signora, cibo. Quel poco che avete non sarà sufficiente.

— Ma potrebbe essere avvelenato!

— Lo controlleremo — disse Horace.

— Non abbiamo modo di controllarlo.

— Certo — disse Horace. — Non abbiamo laboratorio. Non abbiamo reagenti, e anche e li avessimo, non conosciamo la chimica. Ma c'è sempre un modo. Dobbiamo fare da cavia noi stessi.

— Dovrete farlo voi — disse Conrad. — In questo, noi robot non possiamo aiutarvi.

— Prenderemo un minuscolo pezzo di cibo — disse Horace. — Lo assaggeremo. Se ha gusto cattivo, se brucia la lingua, se lega i denti, lo sputeremo. Se invece avrà gusto soddisfacente, ne inghiottiremo un piccolo pezzo, e poi staremo a vedere.

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