Clifford D. Simak
La strada dell'eternità
Il telegramma lo raggiunse a Singapore: SERVE UOMO CAPACE GIRARE DIETRO ANGOLI STOP CORCORAN. E Boone partì con il primo volo.
Al varco doganale dell'aeroporto Kennedy trovò ad aspettarlo l'autista di Corcoran, che gli prese la valigia e gli tenne aperta la portiera della limousine. La strada era bagnata, ma aveva smesso di piovere. Boone si accomodò sul sedile, notò che era di cuoio, e seguitò a guardare i palazzi che sfrecciavano davanti al finestrino. Da quanto tempo mancava da Manhattan? si domandò. Dieci anni; forse più.
Quando giunsero alla casa di Corcoran, pioveva di nuovo. L'autista gli prese la valigia, aprì l'ombrello per ripararlo e lo condusse a un ascensore privato che lo portò all'attico. Corcoran lo aspettava nella biblioteca: si alzò dalla poltrona posta nell'angolo e attraversò la spessa moquette con le braccia tese e l'aria soddisfatta.
— Grazie d'essere venuto, Tom. Il volo è stato buono?
— Abbastanza — disse Boone. — L'ultimo pezzo ho dormito.
Corcoran annuì. — Ricordo che dormivi sempre in aereo. Cosa bevi, di questi tempi?
— Scotch. Con un po' di selz. — Boone sprofondò nella poltrona che l'altro gli indicava e aspettò che gli porgesse il bicchiere. Ne bevve un lungo sorso e diede un'occhiata all'arredamento. — Vedo che te la passi bene Jay.
— Non mi lamento. Ho clienti ricchi; pagano per quello che gli do. E agenti in tutto il mondo. Se a Bogotà starnuta un diplomatico, in mezz'ora lo vengo a sapere. Cosa facevi a Singapore?
— Niente. Soltanto un tempo morto tra due servizi. Oggi posso permettermi di scegliere gli argomenti dei miei articoli. Non è come quando ci siamo conosciuti.
— Quanto tempo è passato? — domandò Corcoran. — Da quando ci siamo visti la prima volta, voglio dire.
— Almeno quindici anni. I disordini in Oriente. Tu sei arrivato con i carri armati.
— Già. Siamo arrivati troppo tardi. Un massacro. Pile di cadaveri e nemmeno un superstite. — Al ricordo, Corcoran fece una smorfia. — E poi, da un momento all'altro, salti fuori tu, senza un graffio, in mezzo a un mucchio di morti. Avevi quella tua famosa giacca con tante tasche per i quaderni degli appunti, i registratori, le cassette, la cinepresa, le pellicole. Avevi tanta di quella roba addosso, che sembravi sul punto di scoppiare. E mi hai detto che eri appena arrivato da dietro l'angolo.
Boone annuì. — Mi sono visto la morte proprio a un passo di distanza, e così sono andato dietro l'angolo. Quando sono ritornato, ho visto te. Ma non chiedermi come ho fatto. Non te l'ho saputo spiegare allora, e non so spiegartelo neanche adesso. L'unica risposta è quella che non mi piace: che sono un fenomeno da baraccone.
— Diciamo un mutante. E hai riprovato a farlo, da allora?
— Non ho mai “provato”, o “riprovato”, a farlo. E mi è successo altre due volte. Una in Cina, e un'altra in Sudafrica. quando mi è successo, mi è parso così naturale… il tipo di cosa che possono fare tutti. Ma veniamo a te. Che cosa fai, adesso?
— Avrai sentito quel che mi è capitato.
— Qualcosa — rispose Boone. — Che eri una spia; la CIA e tutto il resto. Ti sei ficcato in una trappola, ma sei riuscito ad avvertirli, e sono venuti a prenderti con un caccia. Un atterraggio sul filo del rasoio, come nei film avventurosi di serie B. L'aereo è stato colpito, ma è riuscito a ripartire…
— Esatto — disse Corcoran. — E poi è precipitato. Nell'urto mi si è sfondata la parte posteriore del cranio, e mi davano per spacciato. Ma avevo da comunicare delle informazioni importantissime, e hanno fatto miracoli per salvarmi la vita… Comunque, per mettermi a posto la testa, hanno dovuto fare delle cose strane. A quanto pare, qualcuno dei collegamenti del mio cervello ha fatto contatto con chissà quale altro, e adesso mi succede di vedere le cose in modo diverso… di vedere quello che gli altri non vedono. E faccio ragionamenti complicati. Collego tra loro dei minuscoli fatti, ricavandone deduzioni che la normale logica non riuscirebbe a trovare. So cose che in nessun modo posso essere venuto a sapere. E questo mi frutta bene.
— Ottimo. E ha qualcosa a che fare con il telegramma che ho ricevuto a Singapore? — domandò Boone.
Corcoran si appoggiò allo schienale e bevve qualche goccia del liquore che si era versato; rifletté un attimo e, alla fine, annuì. — Ha a che fare con uno dei miei clienti. Si è presentato circa sei anni fa. Ha detto di chiamarsi Andrew Martin, e può darsi perfino che fosse il nome vero.
Si era dunque presentato questo Martin, un tipo freddo e distaccato che si rifiutava di dare la mano. E che si rifiutava di rispondere alle domande. Poi, quando Corcoran aveva cercato, educatamente di congedarlo, Martin si era infilato una mano in tasca, aveva preso una busta e l'aveva posata sulla scrivania. Conteneva cento biglietti da mille dollari.
— Questo è solo un acconto — aveva detto Martin. — Per ogni lavoro che mi farete, vi pagherò il doppio delle vostre normali tariffe.
Gli interessavano voci provenienti da tutto il mondo. Non le solite cose politiche, ma voci inconsuete e incredibili: avvenimenti assolutamente privi di senso. Martin non fornì alcun indirizzo. Disse che avrebbe telefonato tutti i giorni per dire a Corcoran dove trovarlo. Ogni volta in un posto diverso.
Le informazioni che cercava erano abbastanza rare, ma Martin pagava bene. Di solito più del doppio delle sue tariffe, e sempre in banconote da mille dollari. La cosa era continuata per alcuni anni.
Corcoran, naturalmente, aveva fatto controlli su di lui. Ma non c'era molto da sapere. Martin sembrava non avere un passato, e neppure un'occupazione. Aveva un rispettabilissimo ufficio con una segretaria a mezza giornata, ma neanche la donna aveva idea della sua attività. Pareva che non trattasse alcun affare, che non avesse rapporti di lavoro.
Inoltre aveva un appartamento d'angolo all'Hotel Everest, ma non ci abitava. Almeno, quando l'agente di Corcoran era entrato nell'appartamento, gli armadi erano vuoti e non c'era segno che le stanze fossero occupate.
Qualche rarissima volta Martin si faceva vedere con una donna chiamata Stella, misteriosa quanto lui.
Poi, qualche mese prima, Martin e Stella erano spariti.
Boone drizzò gli orecchi. — Come?
— Proprio così. Spariti. Dopo il mio ultimo rapporto, quando mi ha lasciato, gli hanno visto fare una telefonata. Poco più tardi il mio agente dell'Hotel Everest ha visto uscire Stella e l'ha seguita. La donna e Martin sono entrati in un vecchio magazzino nei pressi del porto, e non ne sono più usciti.
Boone bevve una lunga sorsata e attese che Corcoran continuasse. Poi, vedendo che l'altro non diceva niente, domandò: — L'ultima informazione che gli hai fornito…?
— Veniva da Londra. Riguardava certa gente che cercava un posto chiamato Hopkins Acre.
— Hopkins Acre, la Tenuta degli Hopkins. Bene sembra un posto abbastanza innocente.
Corcoran annuì. — A parte una cosa. In tutta la Gran Bretagna un luogo che si chiami Hopkins Acre, oggi non esiste. Ma esisteva quattro o cinque secoli fa. Nello Shropshire. È scomparso nel 1615 mentre i proprietari erano in viaggio in Europa. Un dato giorno la Tenuta era lì, e l'indomani non c'era più niente. Neppure un segno, proprio come se quell'insediamento non fosse mai esistito. La casa e la Tenuta, tutto ciò che c'era sulla superficie del terreno… tutto sparito, insieme con le persone che lavoravano la terra e quelle che servivano in casa. L'edificio stesso. Non è rimasto neppure un buco in terra.
— È impossibile — disse Boone. — È una fiaba per bambini.
— Sarà, ma è una fiaba vera — disse Corcoran. — Abbiamo accertato che prima la casa c'era e poi è scomparsa.
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