Clifford Simak - La strada dell'eternità

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Jay Corcoran e Tom Boone sono amici da anni e in certe occasioni formano una coppia perfetta. Jay è un esperto nel raccogliere informazioni su chiunque, e Tom sa girare dietro gli angoli anche quando non ci sono. La scoperta di una stanza che non esiste sarà solo il punto di partenza ideale per un viaggio destinato a scaraventare i due amici in un'avventura ambientata nel più lontano passato e nel più remoto futuro. Incontreranno così una strana famiglia di esiliati che include il bizzarro Henry, detto anche Fantasma (ma non fatevi sentire a chiamarlo in questo modo dagli altri membri della famiglia), il Popolo dell'arcobaleno, che possiede oscure risposte ad ancora più oscure domande, l'ambigua figura nota come Cappello, messaggero di forze sconosciute e al tempo stesso giocattolo di un lupo preistorico, e soprattutto gli Infiniti, che vogliono tramutare l'uomo in una intelligenza priva di corpo. Il tutto, fra robot che vogliono essere utili all'uomo, e lungo quella che è chiamata la Strada dell'eternità.

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Horace gli disse, in tono glaciale: — Non mi pare che tu abbia perso molto tempo, quando siamo partiti. Per poco non mi hai travolto, tanto scappavi in fretta. La paura di metteva le ali ai piedi.

— Non direi. Soltanto un po' di preoccupazione, forse. Un meccanismo di difesa automatico, nient'altro.

— Non siamo riusciti a dare degna sepoltura a Gahan — disse Emma. — Vergogna. L'abbiamo abbandonato laggiù, avvolto nel suo sudario accanto alla fossa.

Spike era giunto ai piedi della collina e si dirigeva verso il monastero.

Il sole era coperto da un banco di nuvole filacciose. Lo scintillio della rete cristallina che coronava le colline e saliva il cielo era meno intenso.

Timothy fissò le luci e rifletté a voce alta. — Molecole di pensiero — disse. — Filosofi formato granello di polvere. Teorici miniaturizzati che generano sogni di grandezza. Non ci sono funzioni fisiche da considerare, solo le fini operazioni della mente umana…

— Oh, sta zitto! — gridò Horace.

Dalla cima della collina, sopra di loro, si udì un rumore, e un ciottolo cadde lungo il pendio. Tutt'e tre si voltarono verso il punto da cui giungeva il rumore. Un robot scendeva verso di loro. Il suo corpo luccicava debolmente alla luce solare; sulla spalla portava un'accetta.

Alzò una mano per salutarli. — Benvenuti, esseri umani — disse, con una voce in chiave di basso. — Da molto tempo non vedavamo uno di voi.

— “Non vedevamo”? — ripeté Horace. — Allora non sei solo.

Il robot giunse a una posizione leggermente più in basso della loro, poi si voltò a fissarli.

— Siamo numerosi — disse il robot. — Abbiamo passato parola su di voi, e altri stanno arrivando, lieti di potervi vedere.

— Allora qui non ci sono esseri umani?

— Alcuni ci sono, ma sono pochissimi — spiegò il robot. — Ciascuno a grande distanza dall'altro, nascosti. Un gruppetto qui, un gruppetto là, poche persone per gruppo. Noi invece siamo troppi. Pochi di noi hanno la fortuna di poter servire gli esseri umani.

— E come passate il tempo, allora? — chiese Horace.

— Abbattiamo gli alberi — disse il robot. — Abbattiamo tutti quelli che incontriamo. Ma gli alberi sono sempre troppi; non possiamo tagliarli tutti.

— Non capisco perché li tagliate — disse Timothy. — Quando li avete tagliati, cosa fate?

— Li ammucchiamo tutti insieme e quando la legna è abbastanza secca le diamo fuoco. Li distruggiamo.

Lungo la collina giunse intanto un altro robot che si schierò accanto al primo. Si tolse la scure dalla spalla, l'appoggiò a terra e appoggiò le mani sul manico.

Prese a parlare come se avesse terminato la frase lui, e non l'altro robot. — La fatica è grande — disse — perché non disponiamo delle meravigliose macchine che permettono di risparmiare il lavoro manuale e inventate da voi uomini. Un tempo c'erano robot con conoscenze tecniche, ma ora non ce ne sono più. Quando gli uomini si sono dedicati alla vita più elementare per coltivare la propria mente, non c'è più stato bisogno di loro. Agli uomini sono stati sufficienti robot molto semplici: giardinieri, cuochi e così via. E questi sono rimasti, quando gli uomini sono scomparsi.

Altri robot giungevano a sciami, e ognuno aveva un'accetta o un altro arnese di lavoro. Arrivavano da soli, o a gruppi di due o tre, e si raggruppavano dietro i primi due che avevano parlato con gli esseri umani.

— Ma ditemi — chiese Timothy — perché questa profonda dedizione al diboscamento? Il legno non lo usate, dopo averlo tagliato. Non vedo il motivo di una simile ostilità nei riguardi degli alberi.

— Gli alberi sono il nemico — disse il primo robot. — Noi combattiamo contro di loro per rivendicare i nostri diritti.

— Dite delle grandi sciocchezze — esclamò Horace. — dei normali, pacifici alberi, come possono essere vostri nemici?

— Certo saprete — disse il secondo robot — che una volta spariti tutti gli uomini… gli alberi prenderanno il loro posto come razza dominante della Terra.

— Ho già sentito questi discorsi — disse Timothy, rivolto al consesso dei robot. — Sia sotto forma di chiacchiere, sia di riflessioni filosofiche. Non ci ho mai badato, anche se nostra sorella Enid pensava che fosse una splendida idea. Secondo lei, gli alberi, come razza dominante, non sarebbero aggressivi e non darebbero fastidio alle altre forme di vita.

— Tutte parole a vanvera — gridò Horace. — Enid è nota per il suo modo di pensare arzigogolato. Gli alberi non hanno organi di senso. Non possono fare niente. Crescono in un punto e non si muovono mai da lì. Dopo un tempo più o meno lungo cadono a terra e marciscono, e la cosa finisce.

— Ci sono certe leggende… — cominciò Emma, parlando nel suo tono di voce più timido, che era davvero molto timido.

— Le leggende sono delle sciocchezze — gridò Horace. — Tutto questo discorso è una sciocchezza. Solo uno stupido robot può dare retta a queste sciocchezze.

— Noi non siamo affatto stupidi, signore — obiettò il secondo robot.

— Suppongo — s'intromise Timothy — che la vostra ostilità nei confronti degli alberi sia dovuta alla convinzione che dovreste essere voi i successori degli uomini.

— Certo — disse il primo robot. — È esattamente quello che pensiamo. Abbiamo ogni ragione per considerarci gli eredi dell'uomo. Noi siamo un prolungamento della razza. Siamo fatti a immagine della razza. Pensiamo come gli uomini, e il nostro comportamento è stato modellato su quello degli uomini. Siamo gli eredi dell'uomo, ma ci è stata sottratta la sua eredità.

Emma disse: — C'è Spike che fa ritorno. E c'è qualcosa con lui.

— Non lo vedo — disse Horace.

— Dietro l'angolo del monastero. Spike è accompagnato da una cosa che è più grande di lui, e le corre dietro. Vengono verso di noi.

Horace si sforzò di guardare e infine riconobbe le due figure. Riconobbe immediatamente Spike a causa del suo modo di camminare ora in una direzione ora in un'altra, ma per qualche tempo non riuscì a capire chi era l'altro.

Poi un debole raggio di sole colpì un punto particolare, e non ci furono più dubbi. Anche da quella distanza vide la rete simile a una ragnatela e l'unico occhio scintillante.

Emma disse: — È un altro di quei mostri assassini. Spike gioca con un mostro assassino. Giocherebbe con qualsiasi cosa.

— Non gioca — disse Horace, che si sentiva strozzare dalla collera. — Lo spinge verso di noi.

Lungo il pendio, notò in quel momento, c'erano meno robot di prima. Mentre osservava la scena, vide che i robot si allontanavano senza fretta, diretti verso la cima dell'altura.

Domandò a Timothy: — Che fucili abbiamo, nel viaggiatore?

— Non lo so — disse Timothy. — Ti sei occupato tu dell'equipaggiamento. Ti sei preso la mia collezione di armi senza neppure avvertirmi. Le hai portate via come se fossero tue.

Emma strillò: — I robot se ne stanno andando. Scappano. Non ci sono di nessun aiuto.

Horace sbuffò. — E chi ha mai pensato di farsi aiutare? Sono una tribù di fifoni. Io non mi sono mai aspettato niente da loro.

Risalì sulla rampa. — Credo che ci sia un trenta-zero-sei — rifletté. — Non è di grosso calibro, ma con le cartucce ad alta penetrazione dovrebbe essere in grado di abbattere qualsiasi cosa.

— La migliore soluzione — disse Emma — sarebbe quella di risalire sul viaggiatore e partire.

Timothy ribatté con irritazione: — Non possiamo partire senza Spike. Fa parte della famiglia.

— È lui — disse Emma, piccata — la causa di tutti i nostri guai. Ne combina sempre una nuova.

Tutti i robot erano spariti. Il pendio, al di sotto del viaggiatore, era vuoto: non ne rimaneva uno. Non importa, pensò Horace, dopo essersi dato un'occhiata attorno. Anche se fossero rimasti, non sarebbero serviti a niente. Esseri abituati a scappare.

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