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Clifford Simak: Il pianeta di Shakespeare

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Clifford Simak Il pianeta di Shakespeare

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Un’astronave in viaggio ormai da tempo verso mondi abitabili, guidata da un centro di comando che riunisce le menti di tre esseri umani del passato, corrispondenti all’equipaggio conservato in animazione sospesa per tutto il volo siderale. Purtroppo al termine del viaggio, cioè all’arrivo su un pianeta abitabile, l’unico superstite è Carter Horton. Per fortuna ha con sè il robot Nicodemus, che è in grado a seconda dei casi di attingere a numerosi cervelli positronici, riservando qualche sorpresa. Ma su quel pianeta c’è anche qualcun altro…

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Si alzò in piedi e i muscoli aggranchiti delle gambe gridarono di sollievo. Ma non si mosse subito: restò lì ad ascoltare lo sbalordimento che tuonava dentro di lui.

Era rimasto deluso, lo ricordava, alla prima occhiata data al pianeta, deluso della sua mancanza di alienità, e l’aveva giudicato nient’altro che una Terra sciatta. A ben vedere, disse, difendendo quella prima impressione, era abbastanza sciatto.

Adesso che era il momento di andare, adesso che era stato congedato, provava una strana riluttanza ad allontanarsi. Era come se, avendo stabilito un’amicizia nuova, gli dispiacesse dire addio. Era un termine errato, e lo sapeva: non era un’amicizia. Cercò la parola esatta: ma non gliene venne in mente nessuna.

Poteva mai esistere una vera amicizia, si chiese, un’amicizia tra due intelligenze così completamente diverse? Potevano trovare quel terreno comune, quell’armonia, avrebbero mai potuto dirsi: Sono d’accordo con te… forse hai affrontato il concetto di un’umanità comune e di una comune filosofia di un punto di vista diverso, ma la tua conclusione coincide con la mia?

Era improbabile nei dettagli, si disse. Ma sulla base di vasti principi, forse era possibile.

«Buonanotte, Stagno,» disse. «Sono lieto di averti finalmente incontrato. Spero che ci andrà bene a tutti e due.»

Risalì lentamente la riva rocciosa e si avviò per il sentiero, usando la torcia elettrica per ritrovare la strada.

Quando aggirò una curva, il raggio di luce inquadrò una figura bianca. Spostò la lampada. Era Elayne.

«Ti sono venuta incontro,» disse lei.

Horton le si avvicinò. «È stata una sciocchezza,» disse. «Potevi smarrirti.»

«Non me la sentivo di restare,» disse lei. «Dovevo cercarti. Ho paura. Sta per accadere qualcosa.»

«Ancora quel senso di consapevolezza?» chiese Horton. «Come quando abbiamo trovato l’essere racchiuso nel tempo?»

Elayne annuì. «Immagino di sì. Mi sento inquieta, nervosa. Come se stessi da qualche parte, in attesa di spiccare un balzo, ma senza sapere da che parte saltare.»

«Dopo quello che è successo prima,» disse lui, «sono disposto a crederti. À credere alla tua intuizione. Oppure è più forte di un’intuizione?»

«Non so,» disse Elayne. «È così forte da spaventarmi… disperatamente. Mi domando… passeresti la notte con me? Ho una coperta grande. Vuoi dividerla con me?»

«Ne sarei lieto ed onorato.»

«Non solo perché siamo una donna e un uomo,» disse lei. «Anche se, credo, c’entra anche questo. Ma perché siamo due esseri umani… i soli esseri umani. Abbiamo bisogno l’una dell’altro.»

«Sì,» disse lui. «È vero.»

«Tu avevi una donna. Hai detto che gli altri sono morti…»

«Helen,» disse Horton. «È morta da centinaia d’anni, ma per me è stato solo ieri.»

«Perché eri ibernato?»

«Sì. Il sonno cancella il tempo.»

«Se vuoi, puoi fingere che io sia Helen. Non mi dispiacerà.»

Horton la guardò. «Non fingerò,» disse.

25.

Ed ecco che svanisce la tua teoria , disse lo scienziato al monaco, sulla mano di Dio che ci sfiora la fronte.

Non m’importa , disse la gran dama. Questo pianeta non mi piace. Lo giudico ancora sgradevole. Voi potete entusiasmarvi per un’altra forma di vita, un’altra intelligenza molto dissimile da noi, ma a me non piace più di quanto piaccia il pianeta.

Debbo confessare , disse il monaco, che non mi sorride troppo l’idea di portare a bordo anche qualche litro dello Stagno. Non capisco perché Carter abbia accettato di farlo.

Se ricordi quello che c’è stato tra Carter e lo Stagno , disse lo scienziato, ti renderai conto che Carter non ha fatto promesse. Tuttavia, credo che dovremmo portarlo. Se scopriamo di aver commesso un errore, c’è un rimedio semplicissimo. Quando vorremo, Nicodemus potrà gettare lo Stagno fuori bordo.

Ma perché dovremmo prenderci questo disturbo? chiese la gran dama. Quella che Carter chiama l’ora di Dio… per noi non è nulla. Ci ha sfiorati, ecco tutto. L’abbiamo percepita, come Nicodemus. Non ne abbiamo fatto l’esperienza allo stesso modo di Carter e di Shakespeare. Carnivoro… non sappiamo esattamente cosa sia successo a lui. Era molto spaventato.

Non ne abbiamo fatto l’esperienza, ne sono certo , disse lo scienziato, perché le nostre menti, che sono meglio preparate e disciplinate…

È così solo perché non abbiamo altro che le nostre menti , disse il monaco.

È vero , disse lo scienziato. Come stavo dicendo, con le menti meglio disciplinate, istintivamente abbiamo schivato l’ora di Dio. Non le abbiamo permesso di raggiungerci. Ma se le aprissimo le nostre menti, probabilmente ne riceveremmo molto più degli altri.

E anche se non fosse così , disse il monaco, avrò Horton a bordo. Lui ci riesce benissimo.

E la ragazza , disse la gran dama. Elayne… si chiama così? Sarà bello avere di nuovo due umani a bordo.

Non durerà a lungo , disse lo scienziato. Horton, o tutti e due, se verrà anche lei, dovranno ibernarsi molto presto. Non possiamo lasciare che i nostri passeggeri umani invecchino. Rappresentano una risorsa vitale che dobbiamo tenere nella massima considerazione.

Ma solo per qualche mese , insistette la gran dama. In qualche mese, riusciranno a captare molto dall’ora di Dio.

Non possiamo prenderci qualche mese , disse lo scienziato. Una vita umana è molto breve.

Tranne nel nostro caso , disse il monaco.

Non possiamo sapere quanto saranno lunghe le nostre vite , disse lo scienziato. Almeno per ora non possiamo. Tuttavia direi che, nel pieno significato del termine, forse non siamo più umani.

Certo che lo siamo , disse la gran dama. Siamo troppo umani. Ci aggrappiamo alle nostre identità, alle nostre individualità. Litighiamo tra di noi. Lasciamo trasparire i nostri pregiudizi. Siamo ancora meschini e criticabili. E non dovremmo esserlo. Le tre menti dovevano confluire, divenire una mente molto più grande ed efficiente. E non parlo solo di me, della mia meschinità, che sono pronta a riconoscere, ma di te, Scienziato, con il tuo punto di vista scientifico esagerato che tendi ad ostentare per provare la tua superiorità nei confronti di una donna frivola e incostante e di un monaco ingenuo…

Non mi degnerò di discutere con te , disse lo scienziato, ma debbo ricordarti che vi sono stati momenti…

Sì, momenti , disse il monaco. Quando negli abissi dello spazio interstellare non c’erano distrazioni, quando ci eravamo logorati con la nostra meschinità, quando ci annoiavamo a morte. Allora confluivano per pura stanchezza, e quelli erano gli unici momenti in cui ci avvicinavamo all’affinata mente comune che quelli sulla Terra si aspettavano che realizzassimo. Mi piacerebbe vedere che faccia farebbero tutti quei neurologi presuntuosi e quegli psicologi dal cervello di gallina che ci prepararono il copione, se potessero vedere come si sono concretati nella realtà tutti i loro calcoli. Naturalmente, ormai sono tutti morti…

Era il vuoto , disse la gran dama. Era quello ad unirci. Il vuoto e il nulla. Come tre bambini spaventati, rannicchiati insieme per difenderci dal vuoto. Tre menti che cercavano la protezione reciproca, ecco tutto.

Forse , disse lo scienziato, ti sei avvicinata alla verità della situazione. Nella tua amarezza, ti sei avvicinata alla verità.

Non sono amareggiata , disse la gran dama. Se mai vengo ricordata, lo sono come una persona altruista che ha dato parte di sé per tutta la vita, che ha dato più di quanto si poteva chiedere ad un essere umano. Penseranno a me come ad una che ha rinunciato al proprio corpo e alla consolazione della morte per il progresso della causa…

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