Clifford Simak - Il pianeta di Shakespeare

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Il pianeta di Shakespeare: краткое содержание, описание и аннотация

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Un’astronave in viaggio ormai da tempo verso mondi abitabili, guidata da un centro di comando che riunisce le menti di tre esseri umani del passato, corrispondenti all’equipaggio conservato in animazione sospesa per tutto il volo siderale. Purtroppo al termine del viaggio, cioè all’arrivo su un pianeta abitabile, l’unico superstite è Carter Horton. Per fortuna ha con sè il robot Nicodemus, che è in grado a seconda dei casi di attingere a numerosi cervelli positronici, riservando qualche sorpresa. Ma su quel pianeta c’è anche qualcun altro…

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La lucentezza ingrandì e nelle tenebre vi fu un movimento inequivocabile… una sfera di buio più fondo che si avvicinava ondeggiando e frusciando.

Prima era stata solo un’allusione, poi una percezione: e adesso, improvvisamente ed inequivocabilmente, si rivelava… una sfera di tenebra, del diametro d’una sessantina di centimetri, che passava ondeggiando dalla notte al cerchio della luce del fuoco. E il fetore l’accompagnava… un fetore sempre più denso che tuttavia, con l’appressarsi della sfera, sembrava diventare meno pungente.

A tre metri dal fuoco, si fermò ed attese: una sfera nera dal lustro oleoso. Stava lì, semplicemente. Era immobile. Non c’erano fremiti, né pulsazioni: niente indicava che si fosse mai mossa o che fosse capace di muoversi.

«È lo Stagno,» disse Nicodemus, parlando sottovoce, come se non volesse turbarla o spaventarla. «Viene dallo Stagno. Una parte dello Stagno è venuta a farci visita.»

C’era tensione e paura, nel gruppo: eppure, si disse Horton, non era una paura travolgente, piuttosto stupita e sconcertata. Era come, pensò, se la sfera si fosse preoccupata di spaventarli il meno possibile.

«Non è acqua,» disse Horton. «Io ci sono stato, oggi. È più pesante. È come il mercurio, ma non è mercurio.»

«Allora una parte può assumere la forma di sfera,» disse Elayne.

«Quella cosa maledetta è viva,» squittò Carnivoro. «Sta lì, sa di noi, ci spia. Shakespeare dice che c’è qualcosa che non va nello Stagno. Lui ha paura di esso. Non va mai vicino. Shakespeare è un perfettissimo vigliacco. Dice che in momenti come questo, nella vigliaccheria c’è una profonda saggezza.»

«Qui,» disse Nicodemus, «succedono molte cose che noi non comprendiamo. Il tunnel bloccato, l’essere racchiuso nel tempo, e adesso questo. Ho l’impressione che stia per succedere qualcosa.»

«E allora?» chiese Horton alla sfera. «Sta per succedere qualcosa? Sei venuta a dirci questo?»

La sfera non emise alcun suono. Non si mosse. Restò semplicemente lì, in attesa.

Nicodemus le si avvicinò di un passo.

«Lasciala in pace,» disse Horton, bruscamente.

Il robot si fermò.

Il silenzio si protrasse. Non c’era nulla da fare, nulla da dire. Lo Stagno era lì: la prossima mossa spettava a lui.

La sfera fremette, vibrò, e poi si ritrasse, rotolando nell’oscurità senza lasciar tracce anche se, per molto tempo dopo la sua scomparsa, Horton ebbe l’impressione di poterla vedere ancora. Frusciava e sciaguattava mentre si muoveva: e il suono si spense finalmente in lontananza, e il fetore, cui avevano finito per abituarsi, incominciò a disperdersi.

Nicodemus tornò accanto al fuoco e si accovacciò.

«Perché?» chiese.

«Voleva darci un’occhiata,» ululò Carnivoro. «È venuto a darci un’occhiata.»

«Ma perché?» chiese Elayne. «Perché voleva darci un’occhiata?»

«Chi può sapere cosa vuole uno Stagno?» fece Nicodemus.

«C’è un solo modo per scoprirlo,» disse Horton. «Andrò a chiederlo allo Stagno.»

«Questa è la pazzia più grossa che abbia mai sentito,» disse Nicodemus. «Questo posto deve farti un brutto effetto.»

«Non credo sia una pazzia,» disse Elayne. «Lo Stagno è venuto a farci visita. Verrò con te.»

«No,» disse Horton. «Debbo andare da solo. Tutti voi resterete qui. Nessuno viene con me e nessuno mi segue. È chiaro?»

«Stai a sentire, Carter,» disse Nicodemus, «non puoi precipitarti via così…»

«Lasciatelo andare,» ringhiò Carnivoro. «È simpatico sapere che non tutti gli umani sono come il mio vigliacco amico, là sulla porta.»

Balzò in piedi e rivolse a Horton un saluto brusco, quasi beffardo. «Vai, mio amico guerriero. Vai incontro al nemico.»

24.

Si smarrì due volte, sbagliando a svoltare per il sentiero, ma finalmente arrivò allo stagno, scendendo l’erta ripida, mentre la luce della torcia elettrica si rifletteva sulla dura levigatezza della superficie.

Nella notte c’era un silenzio di morte. Lo Stagno era piatto e spento. Una manciata di stelle sconosciute impolverava il cielo. Guardandosi intorno, Horton scorse il bagliore del fuoco che illuminava la cima di un albero altissimo.

Piantò i tacchi sul gradino di pietra che portava allo Stagno e si chinò.

«Bene,» disse parlando con la voce e con la mente. «Sentiamo.»

Attese, e gli parve che vi fosse un lieve movimento nello Stagno, un’increspatura che non era un’increspatura, e dalla riva opposta giunse un bisbiglio, come un vento che spirasse dolcemente tra le canne. Horton sentì un moto nella sua mente, l’impressione che qualcosa vi prendesse forma.

Attese, e poi la cosa non fu più nel suo cervello, ma nello spostamento di coordinate di cui non sapeva nulla, solo che dovevano esservi in gioco delle coordinate, e si sentì spiazzato. Aleggiava, o almeno così gli pareva, come un essere disincarnato, in un vuoto sconosciuto contenente un solo oggetto, una sfera azzurra brillante nella luce del sole che scendeva sopra la sua spalla sinistra, o dove doveva essere la spalla sinistra, perché non era neppure certo di avere un corpo.

La sfera si muoveva verso di lui, oppure era lui che precipitava verso la sfera… non riusciva a capirlo. Comunque, stava diventando più grande. E mentre cresceva, l’azzurrità della superficie si chiazzava di screziature bianche irregolari, ed egli comprese che la sfera era un pianeta, oscurato in parte dalle nubi mascherate fino a quel momento dall’azzurro intenso della superficie.

Ormai non c’era dubbio: stava precipitando attraverso l’atmosfera del pianeta, e tuttavia la caduta sembrava così controllata che egli non provava apprensione. Non era esattamente una caduta: era veleggiare verso il basso, come un pappo di cardo che fluttuasse nell’aria. La forma della sfera era scomparsa, il suo disco era divenuto così immane da riempire e superare la sua visuale. Sotto di lui stava ora la grande pianura azzurra spennellata del bianco delle nubi. Le nubi e nient’altro, nessuna traccia di una massa continentale.

Ora si muoveva più rapidamente, nel precipitare, ma continuava ad avere la sensazione di essere un seme di cardo. Quando fu più vicino alla superficie, vide che l’azzurrità era increspata… acqua mossa dall’infuriare del vento che la spazzava.

Non era acqua, gli disse qualcosa. Liquido, ma non acqua. Un mondo di liquido, un talassopianeta, un mondo fluido senza continenti né isole.

Liquido?

«Dunque è così,» disse, parlando con la bocca del corpo che stava accovacciato sulla riva dello Stagno. «È di là che vieni. È questo che sei.»

E tornò ad essere un seme lanuginoso di cardo librato su un pianeta, intento a osservare, sotto di lui, un grande movimento nell’oceano, con il liquido che si aggobbiva e saliva, arrotondandosi e modellandosi in una sfera, forse di parecchi chilometri di diametro, ma per il resto simile a quella che era venuta in visita all’accampamento. Vide che la sfera si sollevava, si innalzava nell’aria, dapprima lentamente, e poi accelerando, fino a quando la vide venire verso di lui come una gigantesca palla di cannone. Non lo colpì, ma non lo mancò di molto. Il suo essere di seme-di-cardo venne afferrato e sbatacchiato dallo spostamento d’aria causato dal passaggio della sfera liquida. Molto più indietro, udiva il lungo rombo di tuono, mentre l’atmosfera lacerata si riprecipitava scrosciando nel vuoto creato dal passaggio del globo.

Si voltò e vide che il pianeta si allontanava rapidamente, ripiombava nello spazio. Era strano, pensò… che al pianeta accadesse questo. Ma quasi subito si rese conto che non era il pianeta a spostarsi, ma lui. Era stato catturato dall’attrazione della massiccia palla da cannone liquida e, rimbalzando, trascinato dalla sua gravità, la seguiva negli abissi dello spazio.

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