Clifford Simak - Il pianeta di Shakespeare

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Il pianeta di Shakespeare: краткое содержание, описание и аннотация

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Un’astronave in viaggio ormai da tempo verso mondi abitabili, guidata da un centro di comando che riunisce le menti di tre esseri umani del passato, corrispondenti all’equipaggio conservato in animazione sospesa per tutto il volo siderale. Purtroppo al termine del viaggio, cioè all’arrivo su un pianeta abitabile, l’unico superstite è Carter Horton. Per fortuna ha con sè il robot Nicodemus, che è in grado a seconda dei casi di attingere a numerosi cervelli positronici, riservando qualche sorpresa. Ma su quel pianeta c’è anche qualcun altro…

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Credo che non abbia importanza, si disse. Possiamo comunicare. Le idee possono varcare la barriera tra noi. Ma era così pazzesco, pensò… una struttura biologica di molti tessuti diversi che parlava con una massa di liquido biologico. E non solo con quei litri di liquido racchiusi nella conca rocciosa, ma con i miliardi e miliardi di ettolitri di liquido di quel pianeta lontano.

Si mosse, cambiò posizione: si sentiva i muscoli delle gambe aggranchiti.

«Ma perché?» chiese. «Perché vuoi venire con noi? Non per creare un’altra minuscola colonia… una colonia grande come un secchio su qualche altro pianeta che forse raggiungeremo, magari tra qualche secolo. Non ha senso. Devi avere sistemi molto migliori per creare le tue colonie.»

Rapidamente, l’immagine prese forma nella sua mente… il pianeta liquido lucente nella sua azzurrità devastante contro lo sfondo nero dello spazio, e le tante sottili linee irregolari che ne partivano, dirette verso altri pianeti. E mentre vedeva le linee serpeggiare attraverso il diagramma, Horton credette di capire che i pianeti verso cui si dirigevano erano quelli su cui il mondo liquido aveva creato colonie. Stranamente, pensò, quelle linee irregolari somigliavano un po’ al segno convenzionale con cui gli umani rappresentavano i fulmini, e si rese conto che Stagno aveva preso in prestito da lui certe convenzioni, per facilitare la comunicazione.

Uno dei molti pianeti del diagramma sfrecciò verso di lui, ingrandendosi più degli altri: e Horton vide che non era un pianeta, era Nave, ancora sghemba, ma riconoscibile; e uno dei fulmini le si infrangeva contro, rimbalzava e veniva sfrecciando verso di lui. Si chinò, istintivamente, ma non fu abbastanza svelto, e il fulmine lo colpì in mezzo agli occhi. Ebbe la sensazione di disgregarsi, di venire scagliato nell’universo, spogliato e squarciato. E mentre si disperdeva nel cosmo, una grande pace discese da chissà dove e lo avvolse dolcemente. In quell’istante vide e comprese. Poi tutto sparì e lui si ritrovò nel proprio corpo, sulla riva rocciosa dello Stagno.

L’ora di Dio, pensò… è incredibile. Eppure, ripensandoci, gli appariva più credibile e più logico. Il corpo umano, tutti i corpi biologici complicati, avevano un sistema nervoso che era in effetti una rete di comunicazione. E sapendo questo, perché doveva rifiutare il pensiero di un’altra rete di comunicazione, che operava attraverso gli anni-luce, per collegare i molti segmenti dispersi di un’altra intelligenza? Un segnale, per ricordare ad ogni colonia remota che era ancora e sarebbe rimasta parte dell’organismo.

L’effetto di una fucilata, si era detto prima… colto dalla rosa dei pallini sparati contro qualcosa d’altro. E adesso sapeva che quel qualcosa d’altro era Stagno. Ma se era stato solo un effetto secondario, perché adesso Stagno voleva includere lui e Nave nella rosa dei pallini dell’ora di Dio? Perché voleva che prendesse a bordo un secchio del suo liquido? Per fornire un bersaglio che avrebbe inserito lui e Nave nell’ora di Dio? Oppure aveva frainteso?

«Ti ho frainteso?» chiese allo Stagno: e in risposta, provò di nuovo la dispersione, lo squarciamento e la pace. Strano, pensò, prima non aveva conosciuto la pace, ma solo paura, e confusione. La pace e la comprensione, anche se questa volta era venuta solo la pace, non la comprensione, ed andava bene così, pensò Horton, perché anche se l’aveva intuita, non si era fatto un’idea della comprensione, aveva avuto solo la conoscenza, l’impressione che la comprensione ci fosse e che, con il tempo, fosse possibile raggiungerla. Per lui la comprensione era stata sconcertante come tutto il resto. Ma non per tutti, si disse: Elayne, per un istante, aveva afferrato la comprensione, istintivamente, per poi smarrirla di nuovo.

Stagno offriva qualcosa, a lui ed a Nave, e sarebbe stato scortese vedere nell’offerta qualcosa di diverso del desiderio che spingeva un’intelligenza a dividere con un’altra un po’ della sua conoscenza e della sua intuizione. Come aveva detto a Stagno, non poteva esserci conflitto tra due forme di vita tanto dissimili. Data la natura delle differenze, non poteva esserci tra loro né concorrenza né antagonismo. Eppure, in fondo alla sua mente, udiva il tintinnio metallico dei campanelli d’allarme incorporati in ogni cervello umano. Era ingiusto, si disse rabbiosamente, era indegno: ma il tintinnio continuava e continuava. Non ti rendere vulnerabile, scandivano i campanelli, non esporre la tua anima, non fidarti di nulla fino a quando un’esperienza ripetuta non ti dia la triplice certezza che non te ne verrà alcun male.

Tuttavia, si disse, forse l’offerta di Stagno poteva non essere del tutto altruista. Poteva esservi qualcosa dell’umanità, qualche conoscenza, qualche prospettiva o punto di vista, qualche giudizio etico o valutazione storica, che Stagno poteva utilizzare. Provò uno slancio d’orgoglio al pensiero che l’umanità potesse donare qualcosa a quell’intelligenza insospettata, dimostrando che le entità intelligenti, per quanto dissimili, potevano trovare o crearsi una base comune.

A quanto sembrava, Stagno offriva, per chissà quale ragione, un dono molto prezioso nella sua scala dei valori… non un gingillo vistoso quale una civiltà arrogante e più grande poteva offrire a un barbaro. Shakespeare aveva scritto che l’ora di Dio poteva essere un meccanismo d’insegnamento: e avrebbe potuto esserlo, naturalmente. Ma poteva anche essere, pensò Horton, una religione. O semplicemente un segnale di riconoscimento, un richiamo del clan, una convenzione per ricordare a Stagno ed a tutti gli altri Stagni della galassia, l’unità, l’identità di tutti, tra loro e il pianeta che li aveva generati. Un segno di fratellanza, forse… e se era così, allora lui, e per suo tramite la razza umana, stavano ricevendo l’offerta di una partecipazione in prova alla confraternita.

Ma era più di un semplice segnale di riconoscimento, ne era certo. La terza volta che l’aveva investito, lui non era stato avviato nell’esperienza simbolica vissuta in precedenza, ma in una scena della sua infanzia e in un’umanissima fantasia in cui aveva parlato con il teschio di Shakespeare. Era stato soltanto un avvio, oppure era avvenuto perché il meccanismo (il meccanismo?) responsabile dell’ora di Dio si era aperto la strada nella sua mente e nella sua anima, esaminando e sondando e analizzando come aveva mostrato di fare quelle prime due volte? E qualcosa del genere, ricordò, l’aveva provato anche Shakespeare.

«C’è qualcosa che vuoi?» chiese. «Tu fai questo per noi… cosa possiamo fare per te?»

Attese la risposta, ma non venne. Stagno rimase scuro e placido, mentre la luce delle stelle ne screziava la superficie.

Tu fai questo per noi, aveva detto; cosa possiamo fare per te? L’aveva detto come se l’offerta di Stagno fosse qualcosa di grande valore, qualcosa di necessario. Ma lo era? si chiese. Era qualcosa di necessario, di voluto? O non era forse qualcosa di cui potevano fare a meno, felicemente a meno?

E si vergognò. Il primo contatto, pensò. Poi capì di avere sbagliato. Primo contatto per lui e Nave, ma forse non per Stagno e i molti altri Stagni su molti altri pianeti, né per molti altri umani. Da quando Nave aveva lasciato la Terra, l’uomo si era sparso nella galassia, e quelle schegge d’umanità dovevano avere avuto molti altri contatti con esseri strani e meravigliosi.

«Stagno,» disse. «Ti ho parlato. Perché non mi hai risposto, Stagno?»

Un lieve fremito gli passò nella mente, un fremito soddisfatto, come il sospiro sommesso di un cucciolo che si accovaccia per dormire.

«Stagno!» disse Horton.

Non ebbe risposta. Il fremito non si ripeté. Ed era finito, era tutto? Forse Stagno era stanco. Gli sembrava ridicolo che una cosa come Stagno potesse essere stanca.

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