«Buffi, no?» fece Carnivoro. «Non hanno piedi. Saltellano.»
«Sta succedendo qualcosa,» disse Elayne. «Qualcosa di tremendo. L’ho sentito ieri sera, ricordatelo, che stava per accadere qualcosa.»
Le tre lumache avanzarono per il sentiero, senza badare a coloro che stavano intorno al fuoco, e quasi sfiorandoli li superarono, per prendere il sentiero che conduceva allo Stagno.
La luce ad oriente s’era ravvivata, e lontano, nella foresta, qualcosa emise un suono, come se qualcuno facesse strusciare un bastone lungo una staccionata.
Un altro grido di Stagno lacerò la mente di Horton. Si lanciò a corsa giù per il sentiero che portava alla conca, e il Carnivoro lo raggiunse, a grandi balzi.
«Vuoi rivelarmi,» chiese, «cos’è accaduto per causare eccitazione e tanto correre?»
«Stagno è nei guai.»
«E come può essere nei guai? Qualcuno gli tira sassi?»
«Non lo so,» disse Horton, «ma sta urlando disperatamente.»
Il sentiero s’incurvava, superando il costone. Sotto di loro stava lo Stagno, e più oltre la collina conica. Stava succedendo qualcosa alla collina. Si sollevava e si squarciava, e da essa si stava levando qualcosa di scuro, di orribile. Le tre lumache erano rannicchiate vicine vicine, sulla riva.
Carnivoro accelerò, scendendo a balzi rapidi il sentiero. Horton gli gridò: «Torna indietro, sciocco! Torna indietro, pazzo!»
«Horton, guarda!» gridò Elayne. «Non la collina. Sul dorsale della città.»
Uno degli edifici, vide Horton, si era frantumato, i muri erano crollati, e ne stava uscendo un essere che scintillava al sole mattutino.
«È il nostro essere nel tempo,» disse Elayne. «Quello che abbiamo trovato noi.»
Vedendolo nel blocco di tempo congelato, Horton non aveva potuto discernere la forma: ma adesso, liberato dalla sua prigione, appariva come uno splendore.
Le grandi ali si spiegavano, e la luce vi si rifrangeva in un arcobaleno, come se fossero fatte di innumerevoli, minuscoli prismi. La testa dal becco rapace era sorretta da un lungo collo: e sembrava, pensò Horton, che quella testa fosse coperta da un elmo incastonato di gemme. Lunghi artigli scintillanti si estendevano dalle zampe pesanti, e la coda era irta di spine aguzze e lucenti.
«Un drago,» disse Elayne, sottovoce. «Come i draghi delle vecchie leggende terrestri.»
«Forse,» disse Horton. «Nessuno sa cosa fossero i draghi, ammesso che esistessero.»
Ma il drago, se era un drago, era in difficoltà. Liberato dalla solida casa di pietra in cui era stato imprigionato, cercava di lanciarsi nell’aria, sbattendo goffamente le ali enormi per sollevarsi. Svolazzava goffamente, pensò Horton, quando avrebbe dovuto volteggiare nel cielo con ali forti e sicure, salendo la scalinata dell’aria, come un essere agile potrebbe correre gioiosamente su per una collina, esultando della potenza delle zampe, della capacità dei polmoni.
Ricordò Carnivoro che era sceso correndo lungo il sentiero, e girò la testa per vedere dove poteva essere. Non lo ritrovò subito, ma vide che la collina oltre lo Stagno era stata frantumata, spezzata, frammentata dall’essere che ne usciva. Grandi lastre e pezzi di collina rotolavano giù per i fianchi ripidi, ed ai suoi piedi si era accumulata una grande quantità di detriti, pietre e terriccio. La base, ancora intera, era segnata da crepe zigzaganti, simile a quelle che potrebbe causare un terremoto.
Ma sebbene egli vedesse tutto questo, ciò che incatenava la sua attenzione era l’essere che ne usciva.
Sgocciolava sozzura, e grandi scaglie di sudiciume se ne staccavano. La testa era un grumo, ed anche il resto… un enorme grumo che aveva una parvenza di umanoide, ma non lo era. Era un’orrida parodia dell’umanità che qualche stregone barbaro, sbavando veleno, avrebbe potuto foggiare con argilla e paglia e letame per raffigurare un nemico da torturare e da annientare… tozza, deforme, sghemba, ma con un’alone di malvagità, la malvagità perversa e bavosa presa a prestito da colui che l’aveva fatta, e ingigantita dall’inettitudine. Il male se ne irradiava come un vapore velenoso poteva levarsi da una palude putrescente.
Ormai la collina era quasi spianata, e mentre Horton osservava, affascinato, il mostro si liberò e spiccò un balzo in avanti, coprendo più di tre metri in un unico passo.
Horton abbassò la mano per cercare la pistola, e nello stesso istante ricordò che non l’aveva… era rimasta all’accampamento; aveva dimenticato di agganciarla alla cintura, ed imprecò contro se stesso per la dimenticanza, perché non c’era ombra di dubbio, una cosa maligna come l’essere uscito dalla collina non aveva il diritto di vivere.
Solo in quel momento vide Carnivoro.
«Carnivoro!» urlò.
Perché quel pazzo stava correndo verso l’essere, correva a quattro zampe per procedere più in fretta. Caricava a testa bassa, e dal punto in cui si trovava, Horton poteva vedere il guizzare agile dei muscoli poderosi.
Poi balzò verso il mostro, si arrampicò su quel corpo massiccio, trasportato dallo slancio della carica verso il collo tozzo che univa il grumo della testa al grumo che era il corpo.
«NO! NO!» stava gridando Nicodemus, dietro di lui. «Lascialo a Carnivoro.»
Horton si voltò di scatto e vide che Nicodemus stringeva con una zampa d’acciaio il polso della mano con cui Elayne impugnava la sua arma.
Poi girò di nuovo la testa, e vide Carnivoro avventare la testa di tigre in un colpo lacerante. Le zanne lucenti affondarono nella gola del mostro e la dilaniarono. Un fiotto di nerume scaturì dalla gola, coprendo il corpo di Carnivoro d’una sostanza scura che, per un istante, parve fonderlo con la massa del mostro. Una delle mani a clava si alzò, come per un riflesso istintivo, e si chiuse attorno a Carnivoro, staccandolo dal corpo, sollevandolo e scagliandolo via. Il mostro mosse un altro passo e cominciò a barcollare, crollando in avanti lentamente, come un albero all’ultimo colpo d’ascia, riluttante, sforzandosi fino all’ultimo di restare eretto.
Carnivoro era caduto sulla riva rocciosa dello Stagno e non si rialzava. Horton si precipitò correndo giù per il sentiero superando le tre lumache ancora accovacciate sulla sponda.
Carnivoro giaceva bocconi; inginocchiandoglisi accanto, Horton lo girò lentamente sulla schiena. Era inerte come un sacco. Gli occhi erano chiusi, e il sangue gli sgoragava dalle narici e dall’angolo della bocca. Il corpo era insozzato dalla viscida sostanza nera scaturita dalla gola squarciata del mostro. Dal petto sporgevano ossa scheggiate.
Nicodemus sopraggiunse al trotto e s’inginocchiò accanto ad Horton. «Come va?» chiese.
«È vivo,» disse Horton. «ma forse, non per molto. Non hai un transmog da chirurgo, nella tua serie?»
«Molto semplice,» disse il robot. «La conoscenza di malattie comuni, il modo per guarirle. Alcuni principi della medicina. Niente che possa rimediare una cassa toracica.»
«Non avresti dovuto trattenermi,» disse Elayne a Nicodemus, rabbiosamente. «Avrei potuto uccidere quel mostro prima che posasse una mano su Carnivoro.»
«Lei non capisce,» disse Nicodemus. «Per Carnivoro era necessario.»
«È assurdo,» disse lei.
«Vuol dire,» spiegò Horton, «che Carnivoro è un guerriero. È specializzato nell’uccisione dei mostri. Andava da un mondo all’altro in cerca delle specie più terribili. Una questione culturale. Otteneva una sorta di punteggio elevato, per questo. Stava per diventare il più grande uccisore tra il suo popolo. Questo, molto probabilmente, farà di lui il più grande uccisore di tutti i tempi. Gli assicurerà una specie d’immortalità culturale.»
«Ma a che serve?» chiese Elayne. «La sua gente non lo saprà mai.»
«Shakespeare aveva scritto qualcosa in proposito,» disse Nicodemus. «Aveva l’impressione che, chissà come, il suo popolo lo sapesse.»
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