Clifford Simak - Il pianeta di Shakespeare

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Il pianeta di Shakespeare: краткое содержание, описание и аннотация

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Un’astronave in viaggio ormai da tempo verso mondi abitabili, guidata da un centro di comando che riunisce le menti di tre esseri umani del passato, corrispondenti all’equipaggio conservato in animazione sospesa per tutto il volo siderale. Purtroppo al termine del viaggio, cioè all’arrivo su un pianeta abitabile, l’unico superstite è Carter Horton. Per fortuna ha con sè il robot Nicodemus, che è in grado a seconda dei casi di attingere a numerosi cervelli positronici, riservando qualche sorpresa. Ma su quel pianeta c’è anche qualcun altro…

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«L’ho cronometrato, questa volta,» disse Nicodemus. «È durato un po’ meno di un quarto d’ora. È sembrato tanto tempo?»

«Di più,» disse Elayne. «Sembrava che durasse per sempre.»

Nicodemus guardò Horton con fare interrogativo. «Non saprei,» disse Horton. «Non ho avuto un’impressione chiara del tempo.»

Il dialogo con Shakespeare non era durato troppo a lungo, ma quando cercò di calcolare con la memoria per quanto tempo era stato nel campo dei fagioli, non fu neppure in grado di formulare un’ipotesi.

«Per te è stato lo stesso?» chiese Elayne. «Hai visto quello che ho visto io? Era questo che non sapevi descrivere?»

«Questa volta è stato diverso. Sono tornato alla mia infanzia.»

«Tutto lì?» chiese Elayne. «Solo un ritorno all’infanzia?»

«Tutto lì,» disse Horton. Non se la sentiva di parlare del dialogo con il teschio. Sarebbe suonato strano e, molto probabilmente, Carnivoro si sarebbe fatto prendere dal panico. Era meglio lasciar stare, decise.

«Quello che voglio,» disse Carnivoro, «è che questa ora di Dio ci dice come riparare il tunnel. Tu sei sicuro,» disse a Nicodemus, «di non potere fare altro.»

«Non so immaginare cosa potrei fare,» disse il robot. «Ho cercato di staccare il coperchio dai comandi, e sembra impossibile. Ho cercato di staccare il quadro con lo scalpello, e quella roccia è più dura dell’acciaio. Lo scalpello rimbalza. Non è roccia normale. Non so come, è stata metamorfosata.»

«Possiamo provare la magia. Tra tutti e quattro…»

«Non conosco nessuna magia,» gli disse Nicodemus.

«Neppure io,» disse Horton.

«Io ne conosco un po’,» disse Carnivoro. «E forse anche la signora.»

«Che specie di magia, Carnivoro?»

«Magia delle radici, magia delle erbe, magia della danza.»

«Sono primitive,» disse Elayne. «Hanno scarsi effetti.»

«Per sua stessa natura, ogni magia è primitiva,» disse Nicodemus. «È l’appello dell’ignorante a potenze di cui si sospetta l’esistenza, ma di cui nessuno è sicuro.»

«Non necessariamente,» disse Elayne. «So di popoli che hanno magie efficaci… magie su cui si può contare. Basate, credo, sulla matematica.»

«Ma non sul nostro tipo di matematica,» disse Horton.

«Infatti. Non sul nostro tipo di matematica.»

«Però non conosci questa magia,» disse Carnivoro. «Non conosci questa matematica.»

«Mi dispiace, Carnivoro. Non ne so nulla.»

«Avete diprezzato la mia magia,» ululò Carnivoro. «Tutti voi mi avete depresso crudelmente. Della mia semplice magia, di foglie e radici e cortecce, voi vi fate beffe con tranquilla decisione. Poi mi dite di un’altra magia che può funzionare, che può aprire il tunnel, ma non la conoscete.»

«Ti ripeto che mi dispiace,» disse Elayne. «Vorrei conoscere quella magia, per aiutarti. Ma noi siamo qui, e quella è altrove, ed anche se potessi andare a cercarla, e trovare coloro che la usano, non sono certa che riuscirei ad ottenere il loro interessamento. Perché, senza dubbio, saranno individui schizzinosi, con cui non è facile parlare.»

«Non importa un accidente a nessuno,» disse Carnivoro, con trasporto. «Voi tre potete tornare alla nave…»

«Potremmo tornare al tunnel domattina,» disse Nicodemus. «E dargli un’altra occhiata. Potremmo notare qualcosa che finora ci è sfuggito. Dopotutto, ho dedicato tutto il tempo al quadro dei comandi, e nessuno ha fatto attenzione al tunnel vero e proprio. Forse troveremo qualcosa.»

«Lo farai?» chiese Carnivoro. «Davvero lo farai per il buon vecchio Carnivoro?»

E ormai , pensò Horton, è la fine. L’indomani mattina sarebbero andati a ispezionare il tunnel ancora una volta. Non avrebbero trovato niente, e non avrebbero potuto far più niente… però, pensandoci bene, era una frase inesatta: fino a quel momento, infatti, non avevano fatto nulla. Dopo vari millenni, se si accettavano le date di Elayne, avevano raggiunto finalmente un pianeta su cui l’uomo poteva vivere, e si erano precipitati in una missione di salvataggio che era finita in niente. Era illogico pensare così, si disse, ma era la verità. L’unica cosa di valore che avevano trovato erano gli smeraldi, e nella loro situazione, non valeva neppure la pena di raccattarli da terra. Ma forse, ripensandoci meglio, avevano trovato qualcosa che poteva ricompensare del tempo sprecato. Ma si trattava di qualcosa che non potevano rivendicare. In tutta giustizia, l’erede di Shakespeare doveva essere Carnivoro, e questo significava che il volume di Shakespeare spettava a lui.

Levò lo sguardo verso il teschio appeso sopra la porta. Mi piacerebbe avere quel libro , disse al teschio, mentalmente. Mi piacerebbe mettermi tranquillo a leggerlo, cercare di vivere i giorni del tuo esilio, giudicare la tua follia e la tua saggezza, trovando, senza dubbio, più saggezza che follia, perché anche nella follia può esservi talvolta la saggezza, cercare di correlare cronologicamente i brani e le annotazioni che tu hai scritto a casaccio, scoprire che tipo d’uomo eri, e come sei venuto a patti con la solitudine e la morte.

Ho parlato veramente con te? chiese al teschio. Ti sei proteso oltre la dimensione della porta per stabilire un contatto con me, forse, specificamente, per parlarmi dello Stagno? O forse cercavi semplicemente di entrare in contatto con uno qualsiasi, una qualunque entità intellettuale, in grado di rinunciare ad una incredulità naturale e quindi di parlare con te? Chiedilo allo Stagno, hai detto. E come lo si chiede allo Stagno? Ci si avvicina allo Stagno e si dice: Shakespeare mi ha informato che posso parlare con te… quindi avanti, parla? E che ne sai, veramente, dello Stagno? Forse c’è qualcosa che avresti voluto dirmi, ma non ne hai avuto il tempo? Adesso posso chiederti tutto questo, perché non mi risponderai. Comunque, mi aiuta a credere di aver parlato con te, bombardarti adesso di domande che non troveranno risposta da parte di una cosa d’osso sbiancato inchiodata sopra una porta.

A Carnivoro tutto questo non lo hai detto: ma tanto, con lui non parlavi; perché nella tua follia, dovevi avere paura di lui più di quanto lo rivelassi nei tuoi scritti. Eri un uomo strano, Shakespeare, e mi dispiace di non averti potuto conoscere, ma forse ti conosco adesso. Forse ti conosco meglio che se ti avessi incontrato da vivo. Forse meglio di quanto ti abbia conosciuto Carnivoro, perché io sono umano e lui no.

E Carnivoro? Già, e Carnivoro? Perché adesso erano alla fine, e qualcuno doveva decidere cosa fare di Carnivoro. Carnivoro, quel povero cafone, sgradevole e disgustoso… eppure bisognava fare qualcosa per lui. Dopo aver suscitato le sue speranze, non potevano andarsene e abbandonarlo lì. Nave… avrebbe dovuto chiederlo a Nave: ma aveva paura. Non avrebbe neppure cercato di porsi in contatto con Nave, perché se e quando l’avesse fatto, il problema di Carnivoro si sarebbe presentato, e lui conosceva già la risposta. Era una risposta che non voleva ascoltare, che non si sentiva di ascoltare.

«Lo stagno puzza forte, stasera,» disse Carnivoro. «Certe volte puzza di più, e quando il vento spira dalla parte giusta, è insopportabile.»

Quando quelle parole penetrarono nella sua coscienza, Horton si accorse di nuovo degli altri seduti intorno al fuoco; e il teschio di Shakespeare non era altro che una chiazza bianca sopra la porta.

C’era il fetore, l’immonda putredine dello Stagno, e da oltre il cerchio della luce del fuoco veniva una sorta di fruscio. Gli altri l’udirono e girarono la testa nella direzione da cui proveniva il suono. Nessuno parlava, in attesa che il suono si ripetesse.

E si ripeté, e adesso c’era un senso di movimento nell’oscurità, come se una parte della tenebra si fosse mossa: non era un movimento visibile, ma un senso di movimento. Una piccola parte dell’oscurità assunse una lucentezza, come se una sua sfaccettatura fosse divenuta uno specchio e riflettesse la luce del fuoco.

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