Clifford Simak - Il pianeta di Shakespeare

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Il pianeta di Shakespeare: краткое содержание, описание и аннотация

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Un’astronave in viaggio ormai da tempo verso mondi abitabili, guidata da un centro di comando che riunisce le menti di tre esseri umani del passato, corrispondenti all’equipaggio conservato in animazione sospesa per tutto il volo siderale. Purtroppo al termine del viaggio, cioè all’arrivo su un pianeta abitabile, l’unico superstite è Carter Horton. Per fortuna ha con sè il robot Nicodemus, che è in grado a seconda dei casi di attingere a numerosi cervelli positronici, riservando qualche sorpresa. Ma su quel pianeta c’è anche qualcun altro…

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Tutto appariva assurdo. Gli pareva di aver perduto ogni senso d’orientamento. Ad eccezione della palla da cannone liquida e delle stelle lontane, non c’erano punti di riferimento, e anche quelli esistenti avevano scarso significato. Gli sembrava di aver perduto la misura del tempo, e lo spazio non era più misurabile: e sebbene egli conservasse qualcosa dell’identità personale, si era ridotta a una minuscola fiammella. Ecco cosa succede, si disse, compiaciuto, quando non hai corpo. Un milione d’anni-luce possono essere un passo, e un milione d’anni solo lo scandire di un secondo. La sola cosa di cui era conscio era il suono dello spazio, simile allo scroscio di un oceano che precipitasse da una cascata alta mille miglia… e un altro suono, una cantilena, un frinire di grilli, quasi troppo acuto perché il suo udito lo captasse: e quello, si disse, era il sospiro del lampo di calore balenante al di qua dell’infinito, e il bagliore di quel lampo, lo sapeva, era l’emblema del tempo.

All’improvviso, mentre distoglieva un attimo lo sguardo, si accorse che il globo lanciato nello spazio aveva trovato un sistema solare, e sfrecciava attraverso una densa atmosfera, per girare intorno ad uno dei pianeti. Mentre guardava, il globo si deformò, da una parte, si aggobbì formando un’altra sfera più piccola, che si staccò e cominciò ad orbitare intorno al pianeta, mentre la sfera madre, più grande, descrisse una curva per avventarsi di nuovo nello spazio. Nel curvare, lo sganciò e lo lanciò lontano, ed egli si ritrovò, libero, a precipitare verso la superficie scura del pianeta sconosciuto. La paura affondò gli artigli nel suo essere: aprì la bocca per urlare, e si stupì di avere ancora una bocca.

Ma prima che potesse lanciare l’urlo, non ebbe più bisogno di urlare, perché era ritornato entro il suo corpo, accosciato in riva allo Stagno.

Aveva gli occhi chiusi e li aprì, con la sensazione di dover forzare le palpebre. Riusciva a vedere abbastanza bene, nonostante l’oscurità della notte. Lo Stagno giaceva placido nella sua conca rocciosa, uno specchio senza increspature che rifletteva la luce delle stelle sparpagliate lassù in cielo. Sulla destra si levava la collina, un’ombra conica nell’oscurità, e sulla sinistra, il dorsale su cui sorgeva la città in rovina sembrava un’enorme bestia nera accovacciata.

«Dunque è così,» disse, parlando sottovoce allo Stagno, non più di un mormorio, come se fosse un segreto che doveva restare tra loro. «Una colonia del pianeta liquido. Forse una tra molte colonie. Ma perché? Cosa ci guadagna, il pianeta, dalle colonie? Un oceano vivente che lancia piccoli segmenti di se stesso, per seminare altri sistemi solari. E quando li ha seminati, cosa ci guadagna? Cosa spera di guadagnare?»

Tacque, accosciato nel silenzio, un silenzio così profondo da risultare snervante, così profondo e incontaminato che gli pareva ancora di udire la cantilena acuta, sibilante del tempo.

«Parlami,» implorò. «Perché non mi parli? Puoi mostrare e spiegare; perché non puoi parlare?»

Perché questo non bastava, si disse. Non bastava per sapere cosa poteva essere lo Stagno e come era finito lì. C’era soltanto un inizio, un fatto fondamentale, che non chiariva il movente e la speranza e lo scopo, e questi erano importanti.

«Senti,» disse, ancora supplichevole, «tu sei una vita, ed io un’altra vita. Per nostra natura non possiamo farci male a vicenda, non abbiamo neppure ragione di desiderarlo. Perciò non abbiamo nulla da temere. Senti, la metterò così… c’è qualcosa che posso fare per te? C’è qualcosa che vuoi fare per me? O in mancanza di questo, com’è possibile poiché operiamo su due piani tanto diversi, perché non cerchiamo di parlarci, di imparare a conoscerci meglio? Tu devi possedere un’intelligenza. Sicuramente questa seminagione dei pianeti non è solo un comportamento istintivo, l’azione di una pianta che lancia i semi perché mettano radici altrove, come la nostra venuta qui è qualcosa di più della cieca disseminazione del nostro seme culturale.»

Rimase in attesa, e vi fu di nuovo un fremito nella sua mente, come se qualcosa vi fosse penetrato e si sforzasse di formarvi un messaggio, di tracciarvi un’immagine. Lentamente, faticosamente, l’immagine crebbe e si strutturò, dapprima come un fremito, poi come una chiazza sfuocata, e infine, consolidandosi in una rappresentazione vignettistica che cambiava e cambiava e cambiava, divenendo più chiara e definitiva ad ogni cambiamento, fino a quando gli parve di essersi sdoppiato… due lui accosciati lì accanto allo Stagno. Ma uno dei due teneva in mano una bottiglia, la stessa che aveva preso nella città, e si chinava ad immergerla nel liquido dello Stagno. Affascinato, restò a guardare — i due lui restarono a guardare — mentre il collo della bottiglia gorgogliava, eruttando uno spruzzo di bollicine, l’aria estromessa forzatamente dal liquido dello Stagno che vi entrava.

«Va bene,» disse un Horton. «Va bene: e poi, che debbo fare?»

L’immagine cambiò, e l’altro lui, reggendo delicatamente la bottiglia, salì la rampa di Nave, anche se Nave era venuta male, era sghemba e storta, una rappresentazione mediocre di Nave come le incisioni della bottiglia erano raffigurazioni mediocri degli esseri che intendevano ritrarre.

Ormai l’altro se stesso era entrato nella Nave, e la rampa si sollevava e la Nave s’innalzava dal pianeta, puntando verso lo spazio.

«Dunque vuoi venire con noi,» disse Horton. «Per amor di Dio, c’è qualcosa su questo pianeta che non voglia venire con noi? Ma così poco di te, solo una fiasca.»

Questa volta l’immagine si formò rapida nella sua mente… un diagramma che mostrava quel lontano pianeta liquido e molti altri pianeti con globi di liquido che li raggiungevano o li lasciavano, e piccole gocce cadute delle sfere discendenti sui pianeti seminati. Il diagramma cambiò: apparvero linee che partivano da tutti i pianeti seminati e dal pianeta liquido, e si orientavano verso un punto dello spazio, unendosi là dove un cerchio era tracciato intorno alla congiunzione. Le linee sparirono, ma il cerchio rimase, e altre linee vennero tracciate rapidamente, per convergere al suo interno.

«Vuoi dire…?» chiese Horton, e l’immagine si ripeté.

«Inseparabile?» chiese Horton. «Vuoi dire che sei uno solo? Che non siete molti, ma uno solo? Che vi è un solo io? Non un ‘noi’, ma un unico ‘io’? Che tu, qui davanti a me, sei solo un’estensione di un’unica vita?»

Il riquadro del diagramma diventò bianco.

«Vuoi dire che è esatto?» chiese Horton. «È questo che intendevi?»

Il diagramma svanì dalla sua mente, e fu sostituito da uno strano sentimento di felicità, di soddisfazione per un problema risolto. Non una parola, non un segno. Solo la sensazione di aver ragione, di aver centrato il significato.

«Ma io parlo con te,» disse. «E tu sembri capire. Come mai mi capisci?»

Senti di nuovo il fremito nella mente, ma questa volta non si formò alcuna immagine. Vi furono guizzi, e figure vaghe, e poi tutto svanì.

«Quindi,» disse Horton, «non sei in grado di dirmelo.» Ma, pensò, forse non ce n’era bisogno. Doveva saperlo lui stesso. Poteva parlare con Nave, tramite il congegno, qualunque cosa fosse, che era innestato nel suo cervello, e forse qui entrava in gioco un principio affine. Lui e Nave comunicavano a parole, perché entrambi conoscevano le parole. Avevano un mezzo di comunicazione comune, ma con Stagno quel mezzo non esisteva. Perciò Stagno, afferrando parte del significato dei pensieri da lui formati mentalmente mentre parlava, i pensieri fratelli delle sue parole, aveva ripiegato sulla forma più fondamentale di comunicazione, le immagini. Immagini dipinte sulla parete di una grotta, incise sul vasellame, disegnate sulla carta… immagini nella mente. L’espressione dei processi di pensiero.

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