Fritz Leiber - L'alba delle tenebre
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- Название:L'alba delle tenebre
- Автор:
- Издательство:Casa Editrice La Tribuna
- Жанр:
- Год:1965
- Город:Piacenza
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— Hai ucciso Micia — sibilò la ragazza. Le sue parole fendettero l’aria come pietre.
— Tua sorella, in un certo senso, vero? — Jarles sorrise. — Be’ lei ha cercato di uccidermi mentre tu mi tenevi occupato. Siamo pari, mi sembra. Non pensare che io nutra del risentimento nei tuoi confronti. Questa scoperta significa che presto indosserò una veste con un nuovo stemma e che la vittoria sulla Stregoneria sarà più rapida del previsto.
Poi la fissò, mentre il sangue gli colava dalla guancia. — Mi piacciono il tuo coraggio e la tua spietatezza — aggiunse. — Sono sicuro che ci intenderemo alla perfezione, una volta che anche tu sarai dei nostri. Oh, non te l’ho detto? Appena avremo superato questa crisi e avremo sistemato Goniface, pregherò Fratello Dhomas di ricondurti alla ragione.
Sharlson Naurya tentò nuovamente di alzarsi, ma invano. Riuscì soltanto a dire, con voce strozzata: — Piccola, sporca canaglia!
Lui annuì, sorridendo. — Esatto — concluse e le puntò contro il raggio paralizzante.
15
Erano già quattro giorni che non aveva notizie di Dickon. Stancamente, l’Uomo Nero sgomberò la mente, in attesa che vi si imprimesse un messaggio che non arrivava mai. Quell’operazione che gli costava una fatica inaudita, perché il recente incontro con Fratello Dhomas aveva ridotto il suo cervello in uno stato di semi-caos: quasi fosse un pianeta lacerato da catastrofiche eruzioni vulcaniche, che facevano sorgere nuovi continenti e nuovi arcipelaghi dagli oceani in burrasca e modificavano tutte le linee costiere.
In un certo senso, la seduta che aveva avuto luogo nelle cripte era stata una sorta di caccia, con Fratello Dhomas nella parte del cacciatore e lui, o meglio la sua personalità, in quella della preda. E lui aveva vinto. Il suo stato di generale prostrazione fisica aveva reso necessario il suo ritorno in cella prima che il sacerdote fosse riuscito a raggiungere il suo scopo. Ma sapeva che non appena avesse riacquistato un po’ le forze la caccia sarebbe ripresa.
E se per caso lui fosse riuscito a spuntarla di nuovo, la caccia sarebbe cominciata per la terza volta.
E allora… be’ aveva visto quel che era accaduto a Jarles. A quanto sembrava, adesso il prete rinnegato era ben visto dalla Gerarchia e godeva della massima fiducia di Cugino Deth; lo dimostrava il fatto che per ben due volte era venuto a trovarlo in cella.
Con ostinazione, e con sempre maggior fatica, liberò ancora una volta la mente dai pensieri, per permettere a Dickon di mettersi in contatto con lui. Non si trovava più in una stanza d’ospedale, ma in una cella di metallo e lì il suo fratellino non avrebbe potuto raggiungerlo attraverso i condotti dell’aerazione; in più era sorvegliato ventiquattr’ore su ventiquattro da due guardie: solo la telepatia poteva valicare simili barriere. Ma Dickon non conosceva l’ubicazione della cella e avrebbe dovuto cercarla muovendosi a caso ed esponendosi a gravi pericoli.
Di nuovo, l’Uomo Nero sgomberò la mente, ma nemmeno questa volta gli giunse alcuna risposta. E di nuovo, la schiera dei suoi bizzarri pensieri, distorti dagli effetti delle stimolazioni con le quali lo aveva bombardato Fratello Dhomas, invase la sua mente sconvolta.
Nell’oscurità degli stretti condotti circolari, Dickon proseguiva la sua ricerca, guidato soltanto dalla straordinaria sensibilità tattile delle estremità delle sue zampe (quando gli artigli erano retratti).
Dickon non era preoccupato. La sua mente altamente semplificata non riusciva a concepire un’emozione così complessa. Perfino le sue frequenti manifestazioni di autocommiserazione erano sempre legate a situazioni reali, immediate. Ma lui sapeva che la sua riserva di sangue fresco stava per esaurirsi, mentre quello che circolava nel suo minuscolo organismo era quasi completamente deossigenato, nonostante la scarsa richiesta dei suoi piccoli muscoli nastriformi. Si era rimpinzato al Luogo di Cova, ma neppure quella scorpacciata gli sarebbe bastata per sempre e prima o poi avrebbe dovuto fermarsi.
Ma per ora gli restava ancora sufficiente energia per esplorare alcuni rami di quell’enorme albero rovesciato che era, nella sua mente, il sistema di aerazione delle cripte.
C’era molto vento in quelle gallerie e le raffiche, continue e violentissime, ostacolavano il suo cammino. Se solo gli fosse capitato di staccare contemporaneamente le quattro zampe dotate di ventosa, sarebbe volato all’indietro come un foglio di carta straccia per metri e metri, prima di riuscire a piantare gli artigli e a fermarsi… ammesso che ci fosse riuscito. Perché Dickon, come spesso lui stesso si ripeteva, non era che un abbozzo d’uomo. Le sue ossa erano più leggere di quelle di una scimmia, il suo corpo non possedeva cellule adipose e i suoi organi interni erano ridotti a un’unica cavità, suddivisa in diverse parti, che serviva sia da pompa per la circolazione sanguigna, sia da camera per il deposito del sangue. Tutte le altre sostanze fisiologiche di cui aveva bisogno, e la cui produzione dipendeva da altri organi, le suggeva dal suo compagno di simbiosi attraverso la piccola bocca avvizzita. Non digeriva né evacuava; non respirava, benché fosse in grado di produrre deboli suoni e anche di abbozzare qualche parola introducendo l’aria nella cavità buccale ed espellendola attraverso le labbra tese. Poiché non aveva bisogno di midollo per produrre il sangue, le sue ossa erano cave; non possedeva ghiandole endocrine e non aveva sesso. Il pelo, corto e sottile che lo ricopriva, gli serviva per evitare di disperdere il calore corporeo.
Insomma, Dickon era una minuscola creatura fatta di ossa, muscoli, tendini, pelle, pelo, calore, un semplice sistema circolatorio, un sistema nervoso, un paio di orecchie mobilissime, due occhi vispi… e una personalità straordinariamente semplice, come la sua fisiologia.
Uno degli obiettivi perseguiti dagli scienziati che avevano dato vita a questa specie artificiale era stato quello di creare un organismo estremamente agile e lesto, riducendo al minimo il peso e il numero delle funzioni corporali. E questo scopo lo avevano raggiunto, ma all’inevitabile condizione di rendere le nuove creature totalmente dipendenti dal proprio compagno di simbiosi, o da qualsiasi altra fonte di sangue, e costrette a ridurre al minimo la loro attività ogniqualvolta la loro riserva energetica era prossima all’esaurimento.
Ma queste limitazioni e la generale fragilità del suo essere non turbavano minimamente Dickon. Come i suoi simili, lui aveva una visione fatalistica e vagamente stoica della vita.
Era per quella ragione che si avventurava senza paura in quei tubi battuti dal vento. Se i condotti dell’aerazione fossero stati illuminati e, per assurdo, qualcuno fosse stato lì a vederlo, l’avrebbe scambiato per un grosso ragno rosso, peloso e velocissimo: sì, perché in condizioni ottimali, Dickon riusciva a raggiungere una velocità di spostamento di gran lunga superiore, in proporzione, a quella dell’uomo.
— Devo trovare mio fratello. Devo trovare mio fratello. — Queste parole si ripetevano nella sua mente con insistenza meccanica, quasi calmante. Non solo desiderava ardentemente ritrovare il calore del fianco dell’Uomo Nero, contro il quale aveva trascorso, appallottolato su se stesso, la maggior parte della sua vita; ma desiderava anche metterlo al corrente di alcuni fatti che era sicuro lo avrebbe molto interessato, e che adesso gli affollavano la mente fino a farla quasi scoppiare, come una scatola riempita allo stremo. Perché era questa l’idea che Dickon aveva della propria mente: una minuscola stanza collocata dietro gli occhi con le pareti tappezzate di tante scatoline piene di ricordi e, al centro, un Dickon piccolissimo, che era il suo vero io, che scrutava all’esterno attraverso le finestre degli occhi e ascoltava attraverso le cornette acustiche delle orecchie. Nella stanzetta c’erano due lavagne: sulla prima, in alto al centro, spiccava la parola “regole”, seguita da una lunga lista di annotazioni scritte fitte fitte; la seconda era vuota. Era riservata ai pensieri di suo fratello.
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