Fritz Leiber - Scacco al tempo

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Scacco al tempo: краткое содержание, описание и аннотация

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Carr Mackay ha un lavoro tranquillo, una fidanzata che lo spinge a far carriera e una vita tutto sommato ben pianificata. Ma ecco che un giorno conosce una strana ragazza, bella e alquanto terrorizzata, e da quel momento la sua vita scivola lungo binari diversi. Scopre di possedere un oscuro potere che il mondo attorno a lui sembra aver perduto, e soprattutto si rende conto che il tempo non è uguale per tutti. O meglio, che non tutti sono obbligati a rispettare la sceneggiatura cosmica imposta silenziosamente al genere umano dall’ordine delle cose. Da quel giorno la vita cambia per Carr Mackay, in modo radicale e spaventoso, poiché fra i pupazzi che tutt’intorno continuano la loro recita si nascondono altri ribelli niente affatto amichevoli…

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Per spiegare il comportamento umano non c’è bisogno di supporre l’esistenza della consapevolezza. Dopo tutto non possiamo mai entrare nella vita interiore di altri individui. Non possiamo mai dimostrare che una tale vita interiore esista per davvero. Ma non abbiamo bisogno di farlo. Tutte le azioni degli esseri umani possono essere adeguatamente giustificate con l’assunto che gli esseri umani sono meccanismi inconsci.

Rientrò alla cieca nella stanza, sprangò la porta dietro di sé e vi si appoggiò pesantemente contro.

Per lo meno, si disse, la cosa alla sua porta non si era rivelata per ciò che aveva più temuto.

Ma era stata quasi peggio…

— Perché — si chiese — mi sono dato la pena di gridare? Perché ho cercato un’ultima inutile conferma?

Lo sapeva già, l’aveva saputo fin da quando aveva riavuto la memoria ed era fuggito dalla strada.

Sapeva ciò che aveva sempre saputo: saputo e respinto per lo meno altre quattro volte. Quand’era stato ignorato dall’uomo basso e grasso e dal dottore all’Agenzia Generale di Collocamento; quando aveva osservato Marcia nella sua camera da letto; quando aveva spiato i genitori di Jane nel loro appartamento; quand’era scappato dalla festa dei Pendleton.

Ma allora l’aveva saputo soltanto per qualche fugace momento.

Questa volta gli aveva afferrato la mente per delle ore.

Era demenziale, incredibile.

Ma era vero.

Niente altro poteva spiegare la sua esperienza.

Jane lo sapeva. L’ometto dalla pelle scura lo sapeva. Quegli altri tre lo sapevano.

E adesso lo sapeva anche lui.

L’universo era una macchina. La gente che lo popolava, eccettuati alcuni individui, erano meccanismi senza cervello, congegni a orologeria in carne e ossa. Fintanto che voi facevate i corretti movimenti meccanici, essi sembravano reagire in maniera intelligente. Ma quando voi vi fermavate, quelli continuavano, ignorandovi.

Come avrebbe potuto altrimenti spiegare tutte le volte che era stato ignorato? Dall’uomo basso e grasso, da Tom e dal dottore. Dall’impiegato alla ricezione di Marcia e dalla stessa Marcia quand’era arrivato con qualche minuto di anticipo sul ritmo del grande meccanismo ad orologeria. Dai genitori di Jane. Da Marcia alla festa dei Pendleton: non aveva finto di danzare mentre volteggiava da sola; aveva danzato (senza cervello) con un’altra figura meccanica (lui stesso) che però si era spostata dal punto che le competeva nell’ingranaggio.

Come spiegare altrimenti tutte le volte che lui e Jane erano stati ignorati? Alla taverna, nel negozio di musica, al cinematografo, al circolo degli scacchi, fra gli scaffali della biblioteca, nelle strade del raccordo anulare, al Goldie’s Casablanca o quando lui e Fred erano stati ignorati: quella folle corsa che avrebbe dovuto lasciare la gente a bocca e occhi spalancati e una dozzina di automobili e motociclette della polizia lanciate sulla loro scia… e quell’inseguimento altrettanto folle attraverso la biblioteca che nessuno aveva notato?

Come spiegare altrimenti tutte le volte che gli altri tre erano stati ignorati? Lo schiaffo. La signora Hackman che frugava nella sua scrivania. Il signor Wilson che prendeva le sigarette. La loro conversazione incurante nella tabaccheria e davanti ai genitori di Jane.

Quali altre cose non avevano quadrato? L’uomo basso e grasso che parlava all’aria. Pianoforti che suonavano da soli e ascensori che si muovevano senza occupanti. Marcia che gli telefonava per dirgli della “meravigliosa serata” che avevano passato insieme, quando lui in realtà era scappato. (Per un attimo ebbe un’immagine fantasma di lei che parlava a un invisibile compagno al Kungsholm, del cameriere che metteva dei piatti pieni davanti a una sedia vuota). La madre di Jane, che accarezzava capelli che non c’erano, piangendo, rivolta a una ragazza assente. E adesso la donna delle pulizie che cercava insensatamente di aprire una porta che, nel vasto progetto operativo d’un universo a orologeria, non avrebbe dovuto esser chiusa a chiave, ripetendo l’azione come un giocattolo nel mezzo del suo numero, fino a quando non era giunto il momento stabilito perché avesse completato la pulizia della stanza e fosse giunto il momento d’andarsene.

Non c’era nessun’altra spiegazione. L’universo era una macchina.

La formicolante Chicago era una città di morti, di senza cervello, di esseri inanimati, nella quale eravate più soli che nel fondo della foresta più desolata. Il volto che guardavate, i volti che vi guardavano, che sorridevano e si accigliavano e parlavano, avevano dentro di sé soltanto il nero vuoto.

Fatta eccezione per pochi, anch’essi per la maggior parte orribili.

Cosa avrebbe potuto fare certa gente nel ridestarsi alla consapevolezza che loro, e loro soltanto, avevano cervello e coscienza, che potevano fare quello che volevano e che la macchina non poteva fermarli, che ogni forma di autorità era davvero cieca?

Avrebbero perso la testa come dei soldati in una città conquistata, come ubriachi in un grande magazzino di notte. Trattando tutte le persone intorno a sé da quei manichini che erano, esultando per il proprio potere. (Rivide nella propria mente quei tre che contemplavano una Chicago addormentata). Obbedendo a tutti i loro impulsi più nascosti. Soddisfacendo tutti i loro più segreti e tenebrosi desideri.

Alcuni di loro potevano mettersi insieme, forse perché si erano destati insieme. Diciamo… una bionda dagli occhi di granito e un signore anziano all’apparenza affabile, e un giovanotto senza una mano.

E una bestia.

Jane aveva scritto: “Alcuni animali sono vivi”. E lui, Carr, una volta era stato notato, quando non avrebbe dovuto esserlo, da un gatto.

Sì, alcuni potevano mettersi insieme, ma a parte questo sarebbero stati intensamente sospettosi. Timorosi che qualche altro gruppo avido e spietato come loro potesse divenir conscio della loro esistenza e distruggerli, poiché i tiranni assoluti hanno sempre paura l’uno dell’altro e si odiano. Timorosi sopra ogni altra cosa che altra gente possa destarsi, in numero sempre maggiore, e punirli per i loro crimini.

Mentre soddisfacevano i propri desideri, mentre si prendevano il loro “divertimento”, si sarebbero colpevolmente guardati intorno alla ricerca del minimo segno di vera vita onde schiacciarla subito.

Era per questo che quei tre avevano seguito Jane: perché avevano voluto “controllarla”.

Lo schiaffo era stato una prova. Se Jane avesse reagito, sarebbe stata perduta.

Era per questo che la signorina Hackman aveva perquisito la sua scrivania, per cercare gli indizi che lui fosse qualcosa di più d’un automa senza cervello.

Era per questo che l’ometto dalla pelle scura con gli occhiali aveva paura. Era quello il grande pericolo dal quale Jane l’aveva messo in guardia, il “sotterraneo mondo privato” nel quale lei non voleva trascinarlo.

Tre persone che depredavano la città morta di Chicago, attenti alla più piccola indicazione di consapevolezza nei manichini intorno a loro.

Carr si rese conto che stava tremando. Stamattina non l’avevano forse visto intento a fissarli fuori della sua finestra, sullo sfondo della facciata per ogni altro verso piatta e monotona? Non era forse possibile che l’avessero seguito fin lì dal Club Scacchistico Caissa? Non era forse possibile che in quello stesso momento stessero salendo le scale, oppure che fossero silenziosamente in agguato dietro alla porta che lui stava fissando con tanto timore?

Strinse le mani. Era tutta una pazzia, si disse: un incubo paranoico. Ma…

La gola gli faceva male. Andò al bagno, trangugiò un gran bicchiere d’acqua, poi lo mise giù sul lavandino macchiato. Quindi si ridistese sul letto spiegazzato. La fatica gli provocava un dolore sordo ma costante dietro agli occhi, era come una febbre interiore.

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