Con un rombo assordante una cavalcata di furgoni carichi di quotidiani freschi di stampa sbucò dall’angolo successivo, procedendo a rompicollo in un tuffo frenetico, come se fosse in gioco il destino della nazione.
La sensazione di palpabile paura, che l’aveva afferrato fin da quando era entrato nel quartiere degli affari, era aumentata ancora. C’era qualcosa che non doveva sentire la sua presenza, qualcosa che non doveva vederlo, qualcosa a cui non si poteva permettere in nessuna circostanza di sapere che lui poteva aver visto o sentito.
Era facile capire perché mai un branco di grattacieli deserti potesse far provare a una persona un brivido temporaneo. Perché doveva darvi la certezza dell’esistenza d’una banda impegnata a darvi la caccia? E perché, in nome dell’equilibrio mentale, quella sensazione doveva esser legata a elementi così incongrui quali la pubblicità dei Prosciutti Wilson, un pannello di vetro, un cane al guinzaglio?
E in qualche modo il numero tre. Tre cose. Tre persone. Tre… tre…
La sua sensazione d’essere sul punto di ricordare stava arrivando al culmine. Era certo che ogni vuoto in quella pista di pietra doveva aver accolto, in altre circostanze, il suo piede; che ogni spoglio panorama di costolatura d’acciaio e di nerborute colonne aveva già intrappolato il suo sguardo vagante.
Mentre rifletteva, il cielo si era rischiarato un po’. Le stelle erano tutte scomparse. Riusciva perfino a scorgere, a qualche isolato di distanza, la statua di Cerere in cima all’edificio dell’Industria e del Commercio. Ricordò che la statua non aveva volto. Trovandosi troppo in alto perché i lineamenti potessero essere distinti, salvo da un aereo o servendosi d’un cannocchiale, una superficie curva e liscia di pietra era servita ugualmente allo scopo.
Poi, molto vicine a lui, sul lato opposto della strada, notò tre figure. Di scatto si sporse in avanti ad osservarle.
Per un attimo pensò che fossero statue.
In realtà erano quattro figure, ma la quarta era un grosso animale nero, simile a un cane, ma con qualche cosa di felino.
Le tre figure più alte parevano ispezionare la città addormentata con aria cupa, meditativa.
La prima era ferma vicino al cane, con un braccio teso, dritto verso il collo dell’animale, come se lo tenesse per un corto guinzaglio. La figura era quella di una donna. C’era uno sfarfallio di capelli chiari sopra un cappotto dalle spalle larghe.
Il secondo era un uomo corpulento.
Il terzo era più magro e all’apparenza era il più giovane. La sua testa pareva piccola e ben curata, anche se con pochi capelli. E quando tese il braccio per indicare qualcosa di lontano, il suo polso parve vuoto.
Sprazzi di ricordi guizzarono incontrollati nel cervello di Carr. Si sporse ancora di più in avanti e allungò il collo, come se l’avvicinarsi al gruppo anche d’un solo centimetro in più potesse consentirgli d’identificarli.
Era ancora troppo buio per distinguere i volti. Eppure, malgrado sapesse che quei tre avevano un volto e com’erano quei volti, si trovò a chiedersi se adesso, alla stessa stregua della statua di Cerere, avessero realmente bisogno d’indossare dei volti.
Si sporse ancora di più.
Ricordò tutto.
Il pomello dell’entrata della camera da letto di Carr continuò ad andare avanti e indietro. Dapprima una lenta, cigolante rotazione fino a liberare lo scrocco. Poi una spinta, cosicché la porta si trovò a premere contro il catenaccio interno. Poi il pomello venne rilasciato d’un tratto, e tornò indietro di scatto, con uno stridio. Poi ricominciò daccapo.
Da dov’era disteso, completamente vestito salvo per le scarpe e il cappotto, Carr osservava il pomello sbirciandolo lungo le sue gambe e il reticolato delle sbarre d’ottone ai piedi del suo letto. Tratteneva il respiro. Anche se il collo e le spalle dolevano, continuava a tenere la testa nella stessa faticosa posizione mezzo sollevata che aveva assunto quando aveva sentito per la prima volta che qualcuno stava trafficando con la porta. Tutte le sue facoltà erano concentrate nel tentativo di evitare qualunque rumore che potesse tradire la sua presenza nella stanza.
Una brezza infinitesimale agitava le tapparelle abbassate. Un moscone ronzò pigramente contro la luce del sole, camminò lungo il soffitto, scese fin sulla mensola del caminetto, fluttuò rumorosamente attraverso la stanza, urtò il paralume con un sonoro plop, scese sul davanzale e vi strisciò sopra per un po’ per poi ricominciare a camminare sul soffitto.
Carr riusciva a sentire il rauco respiro di colui che si trovava appena al di là della porta. Oltre a quel lieve rumore c’era un debole strisciare e raschiare, come se anche un cane stesse cercando di entrare.
Il pomello della porta riprese a girare come un pezzo di macchinario guasto che si rifiutasse di esalare l’ultimo respiro. Per un attimo a Carr parve che il moscone gli fosse atterrato sulla fronte. Ma era soltanto un filo di sudore… pure, bastò a farlo sussultare. Le molle del letto cigolarono, i suoi muscoli si tesero. Irrigidì le braccia doloranti, ormai sul punto di mettersi a tremare per la tensione. L’intera stanza parve diventare un imbuto tappezzato di carta da parati che andava restringendosi fino a concentrarsi tutto su quel pomello inquietante, che continuava implacabile a girare e a scattare all’indietro.
Adesso Carr riuscì a sentire qualcosa di più del rauco respiro. Un querulo borbottio, come se chi si trovava là fuori si stesse spazientendo.
Il moscone urtò ancora contro il paralume, cadde e ronzò lungo il davanzale. Uno scampolo di risata salì fin lassù dalla strada.
Tutta la forza di volontà di questo mondo non avrebbe più potuto controllare il tremito delle braccia di Carr. Ancora una volta le molle del letto cigolarono, facendo tanto rumore che chiunque si trovasse là fuori doveva per forza aver sentito.
Eppure il ritmo dei movimenti del pomello non cambiò, anche se i borbottii divennero un po’ più forti. Carr tese le orecchie, ma non riuscì a distinguere le parole. Il paralume ondeggiò. Il moscone ricominciò il suo viaggio attraverso il soffitto. Carr spostò il peso dalle braccia al fondo della schiena, fece scivolare un piede sul pavimento. Le molle cigolarono, ma non peggio di prima. Un attimo dopo, Carr era rannicchiato accanto al letto. I borbottii là fuori erano ancora inintelligibili. Carr fece un cauto passo verso la porta.
Il pomello smise di muoversi. Vi fu un raschiare di metallo sul legno e uno sciaguattio. Poi un rumore di passi che si allontanavano dalla porta.
Carr esitò, poi in punta di piedi si avvicinò rapidamente alla porta, sfilò il catenaccio interno, attese un istante, quindi socchiuse la porta e guardò fuori. La donna delle pulizie si stava allontanando con il secchio in una mano, lo straccio, la paletta e la scopa nell’altra. Ciuffi di capelli ribelli le spuntavano dal fazzoletto logoro avvolto intorno alla testa. Un grembiule umido, azzurro sporco, era legato dietro la sua schiena con un grosso nodo. I tacchi delle sue scarpe erano consumati sui lati. Carr aprì ancora di più la porta. S’inumidì le labbra. — Ehi — disse con voce rauca.
La donna delle pulizie proseguì senza voltarsi.
Carr uscì in corridoio. — Ehi! — chiamò, riprendendo il controllo della sua voce. Poi, ancora più forte: — Ehi!
Non un attimo di esitazione, non la più piccola alterazione in quell’andatura stanca, indicarono che la donna delle pulizie l’avesse udito.
— Ehi!! — urlò Carr.
La donna delle pulizie scomparve con passo sempre uguale giù per le scale. Carr la seguì con lo sguardo. Ma la sua mente ascoltava lo scorrere monotono di frasi da lungo tempo dimenticate, udite durante una lezione di psicologia all’università.
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