Trasalì, si girò di scatto, vide la porta che conduceva alle scale, si precipitò verso di essa.
Carr fissò il leone di bronzo come se fosse stato l’unico oggetto in un universo per ogni altro verso vuoto. Poi la pietra, l’ombra e la notte riemersero all’esistenza, mitigando i sentimenti in subbuglio che avevano fatto turbinare la sua mente e gli avevano messo le ali ai piedi.
Si guardò intorno un po’ scioccamente, rendendosi conto di trovarsi davanti all’Istituto d’Arte sul lato del Michigan Boulevard rivolto verso il lago. Ricordava la lunga camminata verso il centro soltanto come una progressione di cose viste senza essere realmente percepite. Una lontana insegna elettrica gli indicò l’ora: 3 e 39. Sentì gelide gocce di sudore scorrergli lungo le guance. La sua camicia da sera era umida sotto le ascelle. Si portò la mano alla gola, tirando su i risvolti dello smoking.
Salì i gradini di pietra e toccò, cautamente, il leone, come avrebbe potuto fare un bambino.
Un po’ più tardi provò nuovamente l’impulso di camminare. Ma non senza una meta precisa, lasciandosi andare alla deriva.
Mentre si spostava verso nord, lungo quello straordinario boulevard, di tanto in tanto un’automobile passava sibilando, facendo la riverenza alle strade laterali. Era ancora abbastanza ubriaco da provare l’illusione di essere molto alto e di incedere maestosamente. Cambiando direzione, attraversò il boulevard e si fermò davanti all’ingresso della Biblioteca Pubblica. D’un tratto si rese conto che qualcosa lo stava attirando attraverso la notte, trascinandolo grazie a un numero indefinito di cordicelle fissate in profondità nel suo cervello e nel suo cuore, talmente sottili e trasparenti che non era possibile rendersi conto della loro presenza a meno che qualche altra forza non si opponesse a loro.
Gli strattoni erano molto concreti. Gli pareva quasi di potersi appoggiare su di essi, confidando sulla loro forza per evitare di cadere.
E continuavano ad attirarlo. Avevano una promessa di mistero.
Si concentrò con la fissità di un mistico, sgombrando la sua mente da ogni pensiero aleatorio e lasciando che le sue sensazioni galleggiassero libere, cercando di percepire quegli strattoni, reagendo ad essi.
Cedette.
Le strade erano deserte e non c’era un filo di vento. Superò un chiosco per giornali vuoto. Il suo piede fece frusciare un frammento strappato di giornale.
Gli strattoni continuarono, anche se non crebbero d’intensità. Come se il magnete che lo attirava si allontanasse da lui mentre camminava, mantenendo sempre la stessa distanza.
A metà strada lungo l’isolato, l’attrazione cambiò direzione d’un tratto, guidandolo dentro uno stretto vicolo, niente più d’una fessura fra muraglie gigantesche. Faceva troppo buio per vederci. Protese le mani e tastò il terreno davanti a sé prima con un piede e poi con l’altro, e soltanto dopo accettò di affidare il suo peso ai grossi ciottoli del selciato. Poteva guidare se stesso in maniera approssimativa grazie alla striscia verticale di luce nebbiosa chiazzata di strani bagliori azzurri all’estremità opposta.
All’incirca dopo venti passi, si arrestò incerto. Cominciò udire delle risate e delle conversazioni soffocate, le note d’una musica roca. Mentre avanzava cauto lungo il vicolo buio, si chiese cosa fosse mai che stava seguendo. Qualche pista concreta sul marciapiede o nell’aria: tracce chimiche o elettriche che colpivano i sensi in modo troppo impercettibile per venir riconosciute a livello conscio. Oppure si trattava di ricordi sommersi di qualcosa che gli era accaduto altre volte, forse durante uno dei suoi attacchi di amnesia. Oppure, perfino, d’un qualche tipo di suggerimento postipnotico. Ma il pensiero interferiva con la sua capacità di percepire la presenza della pista. Doveva trasformare la sua mente in quella di un’ameba che si sposta automaticamente verso l’ombra.
Emerse all’altra estremità del vicolo.
Si trovò a guardare la vetrina d’un negozio di musica e a scrutare alla luce dei lampioni gli spartiti, gli album di dischi e gli strumenti-giocattolo. Per un po’ rimase là col viso premuto contro la superficie di vetro, cercando di distinguere cosa ci fosse oltre la porta.
Dal nulla un titolo s’insinuò nella sua mente. La sonata Al chiaro di luna. I suoi pensieri si piegarono e rabbrividirono come sferzati da una raffica di vento. Per un attimo, fu sul punto di ricordare tutto…
Giunse a un cinematografo. Un mostro dagli occhi verdi lo sbirciava malizioso dall’atrio, stringendo fra i bianchi artigli incerte forme femminili i cui volti in preda al terrore imploravano soccorso. Un cartellone proclamava: Sbarrerete gli Occhi! Urlerete! Rabbrividirete Colti da un Delizioso Terrore Quando il Mostro Impazzito Vagherà per le Strade Buie Braccando la Sua Preda!
Davanti alla biglietteria gli capitò una cosa stranissima: la pista deviò d’un tratto verso il bordo del marciapiede e cambiò completamente qualità. Fino a quel momento era stata tranquilla, quasi placata, se si potevano usare parole come quelle. Adesso, all’improvviso, divenne selvaggia, estatica, “calda”: la traccia di qualcosa di follemente gioioso. Carr era arrivato a un punto dal quale, se fosse stato un cane, esplodendo in un guaito eccitato, si sarebbe lanciato in mezzo alla boscaglia.
Divenne sospettoso. Non era soltanto il fatto che il mutamento nella natura della pista l’aveva spaventato, con la sua allusione all’abbandono dell’equilibrio mentale.
Di solito, i cani balzavano via in una direzione diversa perché avevano sentito un odore diverso.
Dovevano esserci due piste.
Passò quasi un quarto d’ora battendo il terreno avanti e indietro. Ciò che rendeva più difficile le cose era che, tutte le volte che s’imbatteva nella pista “calda”, per parecchi secondi la sua capacità di percepire l’altra ne usciva assai danneggiata. Alla fine, con sua soddisfazione, riuscì a distinguerle con chiarezza.
La pista calda proveniva da dietro l’angolo successivo, passava davanti al cinematografo descrivendo un folle cerchio, poi schizzava via attraverso la strada. La pista “tranquilla” seguiva una traccia sul lato fin dentro al cinema, poi ne usciva di nuovo.
Carr scosse la testa. Era tutto così strano… troppo. Come se le piste s’impregnassero di due suoi differenti umori: uno malinconico, quasi torpido. L’altro demenziale, temerario, d’una impudente follia.
Dopo un paio di false partenze, si mise a seguire la traccia tranquilla, attraversando la strada lungo un altro isolato per poi girare un angolo. Qui gli parve rafforzarsi, o forse ciò era dovuto al fatto che non c’era più una distinzione.
Carr giunse nel quartiere degli affari. Qui la sensazione d’una desolazione ostile, che l’aveva accompagnato per qualche tempo, aumentò di colpo, vistosamente. Non era soltanto dovuto al fatto che tutto l’alcol che aveva avuto in corpo stava terminando il suo effetto. Là dietro, vicino al negozio di musica e al cinematografo c’era stato, almeno, il fantasma di qualche specie di umana eccitazione, per quanto dozzinale e stantia… il fascino delle attrazioni pacchiane aveva gravato nell’aria irretendo così gli appetiti umani. Ma quei grandi e opprimenti edifici adibiti a uffici, con i loro orpelli di ferro battuto e le facciate di granito, volevano esplicitamente essere brutti. Si gloriavano della loro petrigna efficienza, della loro indifferenza ai desideri umani, della loro grigia capacità di schiacciare ogni felicità.
Lo sguardo di Carr vagò inquieto da un lato all’altro di quella stretta facciata nera che saliva vertiginosamente verso il cielo… si stava forse muovendo a scatti in avanti come per esibirsi in un imperscrutabile annuire? C’era qualcosa di eccessivamente orribile nel pensiero di migliaia e migliaia di uffici bui, vuoti, salvo per le interminabili file di scrivanie, macchine per scrivere, armadietti metallici, refrigeratori d’acqua. Quali deduzioni ne avrebbe tratto uno straniero che fosse giunto da Marte? Sicuramente non di esseri umani. Qui regnava sovrana la macina della morte, sia di giorno sia di notte, soltanto che in questo momento aveva smesso il suo travestimento.
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