Keaton Fisher continuava a ticchettare.
Dando in un piccolo singhiozzo che era quasi un uggiolio di paura, Carr arretrò, corse al tavolo dei cocktail, ne trangugiò uno, ne prese su un altro; poi un secondo (poteva sempre fingere che fosse destinato a una dama…), raggiunse rapidamente il soggiorno, si spostò lungo la parete per evitare i ballerini, aprì la porta che dava sulla veranda buia, vide che era vuota, si sedette e cominciò a bere a piccoli, avidi sorsi.
Quando mise giù il secondo bicchiere accanto alla poltrona, la reazione lo colpì con una botta che l’obbligò a contorcersi. Fissò freneticamente le finestre scure con i loro luccicanti riflessi colorati provenienti dalla pista da ballo. Ciò che aveva fatto l’aveva escluso per sempre da Marcia. Quella era stata un’ultima possibilità, un’ultima prova. Avrebbe significato prendere in giro se stesso se avesse pensato in maniera diversa.
Aveva respinto con sdegno una splendida possibilità di aver successo nella vita, una possibilità di sollevare la testa sopra il livello delle non-entità, di arrampicarsi fino a un livello dove avevate da dire la vostra parola su ciò che vi sarebbe successo.
Si era condannato a perdere il suo attuale lavoro, a scivolar fuori dal suo attuale ambiente, ad andare di male in peggio. Dio soltanto sapeva per quanto, fino a quando gli stimoli dentro di lui non si fossero spasmodicamente concentrati spingendolo a fare un altro tentativo, sempre che avesse avuto l’energia per farlo. Sapeva che la vergogna e la vanità non gli avrebbero consentito nessun altro corso.
Ma soprattutto aveva perduto Marcia.
Forse non era ancora troppo tardi. Forse…
Balzò in piedi, si affrettò a tornare nel soggiorno, oltrepassò furtivo i ballerini, rientrò nello studio.
Era vuoto.
Completamente vuoto.
Guardò in biblioteca. Vide Keaton Fisher intento a parlare con altra gente. Marcia pareva felice. Anche Keaton Fisher pareva assai espansivo. Mentre Carr lo guardava, scoppiò a ridere e batté una mano sul braccio di Marcia… proprio mentre veniva colto dal tic.
Carr si tirò indietro di scatto, tornò in fretta e furia al tavolo dei cocktail, ripeté la sua manovra con i tre drink e tornò nella veranda.
Ma adesso, mentre beveva al buio con l’orchestra che gemeva alle sue spalle, c’era una differenza. Adesso che aveva fatto il passo irrevocabile, o era stato spinto a farlo, odiava ogni cosa dell’ambiente in cui il passo era stato fatto. Quegli idioti! Che diritto avevano di creare una società nella quale soltanto l’impudenza e un’efficienza da macchine contavano, nella quale chi aveva la pelle troppo delicata ed era senza ambizioni veniva torturato? Ciechi come pipistrelli alle cose davvero importanti della vita. Si agitavano e ancheggiavano come rotelline e pistoni, mentre il mondo andava Dio sa dove. Schernendo il prossimo e vagando di qua o di là, a seconda di come spirava il vento, mentre il tempo rubava giorni a tutti, e non li avrebbe mai più restituiti. Lottando per le briciole del prestigio, mentre pericoli ignoti, simili a neri mostri del mare, giravano silenziosi intorno al vascello dell’umanità. Per un attimo Carr ebbe l’impressione che l’appartamento dei Pendleton fosse realmente una nave, con soltanto un povero sciocco ubriaco rannicchiato futilmente nel ponte buio e vuoto. Si preparò per lo schianto contro gli scogli.
Poi, mentre l’alcol rinserrava la sua stretta su di lui, arrivò un’altra sensazione: l’ottimismo, o meglio il suo fantasma rumoreggiante e incerto. Perché diavolo doveva pensare di aver perduto Marcia? Forse che lei non lo amava? Che differenza faceva anche se lei aveva cercato di cambiare la sua vita e lui non gliel’aveva permesso? Dimostrava soltanto che lui era forte. L’avrebbe portata da qualche altra parte, avrebbero bevuto qualcosa insieme e lui le avrebbe spiegato tutto. Tanto per cominciare, le avrebbe parlato dell’amnesia.
Spalancò la porta del soggiorno e avanzò a grandi passi attraverso la pista da ballo, proprio mentre l’orchestra stava cominciando un nuovo numero. Si mise a fissare i volti della gente. Non gl’importava quanto la cosa lo facesse apparire maleducato. Voleva trovare Marcia e tanto bastava.
Le coppie sulla pista lo sfiorarono, ma lui non si scostò. Cosa gl’importava di tutti quegli sciocchi che in maniera così studiata non gli prestavano la minima attenzione? Di quelle pseudopersone che fingevano di non notare un uomo ubriaco che dava spettacolo di sé! Imbecilli che sorridevano compiaciuti! Come gli sarebbe piaciuto precipitarsi fra loro in preda a una furia omicida, buttare a terra gli uomini, strappare i vestiti sgargianti alle donne, specialmente quelli che lasciavano le spalle scoperte!
Poi vide Marcia.
Era dall’altro lato della pista da ballo, sola. La chiamò facendo energici gesti. Ma lei fece passare oltre il suo sguardo come se non l’avesse visto. Venne avanti piroettando, da sola, come per indicare quanto fosse irresistibile, per lei, la musica. Quando si girò dalla sua parte, lui le fece segno un’altra volta con un sussulto rabbioso della testa. Ma lei lo ignorò. Keaton Fisher le passò davanti, ballando in coppia con Kathy Pendleton. Keaton disse qualcosa a Marcia, che scoppiò a ridere.
Continuò a roteare con grazia, tutta sola. A Carr parve che lo facesse per schernirlo. Le indirizzò una smorfia e per la terza volta le fece un cenno energico.
Lei sorrise in maniera seducente. Il suo braccio pareva appoggiarsi su una spalla immaginaria, la sua schiena arcuarsi contro una mano ugualmente immaginaria.
Carr fu più che convinto che lo stesse prendendo in giro. Era come se gli dicesse: — Quanto è divertente. Non vorresti trovarti qui fra le mie braccia? Non daresti qualunque cosa per poterlo fare?
E continuò a fingere, come un automa.
Come se quel pensiero fosse stato un segnale, tutte le sensazioni che Carr aveva provato quella sera, la sua ansia nei confronti di Keaton Fisher, le sue angosce sulle decisioni che avrebbe dovuto prendere, le sue reazioni nei confronti di tutto il mondo dei Pendleton, si cristallizzarono in un singolo, pietrificato momento di ebbra consapevolezza.
Era come se tutto il fluido vitale delle figure davanti a lui fosse colato fuori da un singolo gigantesco squarcio.
La gente sobria ha l’impressione, per brevi momenti, che ogni forma di vita e di significato sia improvvisamente scomparso da ogni cosa tutt’intorno: i rumori, le parole, la gente. Per una persona ubriaca l’effetto è più intenso. A Carr pareva, mentre se ne stava là immobile, ammiccando, che il mondo dei Pendleton non fosse vero. Quelli erano manichini che danzavano in una vetrina. Il cicaleccio delle voci che giungevano dalla biblioteca erano registrazioni che uscivano ronzando dall’interno cavo di statue animate. E l’orchestra, poi! Vedete come quelle rigide mani brune battono sulla viola di basso, mentre altre due mani vanno su e giù sussultando sopra i tasti del pianoforte e un altro paio ancora volteggia lungo il sassofono? Complessi come quello, di latta dipinta, si vedevano nelle vetrine dei negozi di giocattoli. Quelli erano più grandi e di fattura infinitamente più raffinata, tuttavia la musica, in realtà, arrivava da qualche altro posto.
Pareti di vetro, era questo che aveva pensato. Quella gente si trovava dietro a pareti di vetro, non c’era dubbio, i pannelli di vetro d’una bacheca. Erano giocattoli che avevano raggiunto una dimensione tale da assordare con il loro baccano l’intero universo.
Perfino Marcia era soltanto un’elaborata bambola meccanica. Qualcuno le aveva infilato una chiave nel fianco, l’aveva caricata, e adesso girava e girava… Come Keaton Fisher, entrambi ticchettavano e basta.
Fra un attimo si sarebbero resi conto della sua presenza. Infuriati, perché un uomo vivo si era sbadatamente intrufolato in mezzo ai loro saturnali meccanici, si sarebbero precipitati su di lui, un’autentica marea metallica, luccicanti, sfavillanti, sbattenti, ticchettanti, sferzandolo con le loro braccia metalliche, calpestandolo sotto i loro piedi di metallo. Perfino adesso…
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