Affondò il viso nell’asciugamano fumante.
Tornato in camera da letto dovette affrontare il problema se indossare l’abito blu o quello marrone. Una decisione importante, oppure queste cose venivano decise per voi in anticipo? Scelse l’abito marrone. Mentre si stava infilando i calzoni, il suo sguardo cadde sulla superficie vuota del comodino accanto al letto. Provò una vaga sensazione d’inquietudine. Avrebbe dovuto esserci qualcosa? Decise di no.
In piedi davanti al tavolo della toilette trasferì nei calzoni gli oggetti disposti in bell’ordine sopra di esso, e si rassettò i capelli con la spazzola di tipo militare. Gettò un’occhiata alla fotografia di Marcia, curioso di controllare l’effetto che avrebbe fatto su di lui. Aveva un aspetto fresco e assai fotogenico.
È strano, pensò Carr, quanto siamo legati al volto. Rammentò a se stesso che lui e Marcia avrebbero dovuto andare dai Pendleton l’indomani sera, venerdì. Questo gli concedeva un altro giorno e mezzo per riflettere sulla faccenda di Fisher.
Dopo essersi tastato rapidamente le tasche per controllare se c’era tutto quello che avrebbe dovuto esserci e aver dato un’ultima occhiata alla stanza, valicò la porta e la chiuse dietro di sé, scendendo le scale al piccolo trotto. Un’occhiata al Carr dalla faccia vuota nello specchio gli fece decidere che sarebbe stata, come minimo, una giornata tediosa.
Giunto in strada comperò un giornale e saltò su un autobus che arrivò con giudiziosa puntualità. Pagò il biglietto e trovò un posto dove sedersi.
Alla fine della corsa si trovò ad affrontare il secondo importante problema del mattino. Per riflesso condizionato o per libera scelta, ordinò succo d’arancia, un uovo, toast e caffè. Mentre aspettava che lo servissero, continuò a leggere il giornale: la pagina sportiva e quella dei fumetti. Ancora una volta provò una vaga sensazione di accelerazione predeterminata.
A mezzo isolato dall’Agenzia Generale di Collocamento incontrò Tom Elvested. Si scambiarono i commenti sul tempo. Però qualcosa stava ancora tormentando la mente di Carr quando entrarono in ufficio. C’era una domanda che aveva avuto l’intenzione di fare a Tom, ma adesso aveva dimenticato quale fosse.
La signorina Zabel alzò lo sguardo dalla rosa che stava infilando in un vaso dal collo sottile. Gli sorrise. Lui le sorrise in risposta. Poi notò che il blocco del calendario sulla scrivania della donna diceva “venerdì”. Fece per dire qualcosa, poi gettò un’occhiata furtiva alla data del suo giornale. Provò una sensazione di stupore. Era venerdì. E lui era convinto che fosse giovedì… oppure no? Quel maledetto lavoro gli rammolliva il cervello, non riusciva neppure a ricordare il giorno della settimana. Oh, be’, tanto meglio. Così, il fine settimana era più vicino. E avrebbe visto Marcia quella stessa sera. Il suo smoking era in ordine? Certo.
Aveva appena avuto il tempo di sedersi alla sua scrivania e preparare le sue cose e già il primo candidato gli spuntava davanti: da quel momento arrivarono in un flusso costante. Per essere venerdì c’era parecchia animazione. E a ogni singolo istante c’era sempre qualcosa a tenerlo occupato.
Malgrado ciò, dopo la prima ora cominciò a provare ancora quei lampi d’inquietudine che l’avevano turbato sull’autobus. Piccoli guizzi di apprensione che si manifestavano senza preavviso e se ne andavano con velocità colpevole, come se non avessero il diritto di trovarsi nella sua mente. Certe cose lo tormentavano. Senza alcun motivo valido. Il pannello di vetro. L’orologio. L’estremità di un mozzicone di matita sulla sua scrivania. La schiena di Tom Elvested, che pareva così voluminosa. Il camminare ondeggiante della signorina Zabel.
Si aspettava che andare a pranzo con Tom e il resto della banda servisse a scuoterlo dal suo umore. Ma invece Carr quasi si sentì male nell’ascoltare le battute stantie di Tom Elvested sulle imminenti elezioni, fra una cronometrica forchettata e l’altra di gulash. Sapeva benissimo che Tom era un ragazzo intelligente e acuto ma adesso, ascoltandolo, si sarebbe, potuto giurare che avesse inghiottito un disco con incisi i commenti dei notiziari del mese scorso.
Ernie e Acosta erano altrettanto disastrosi, e il fatto che lui stesso si sentisse più o meno come un robot nervoso non era affatto una consolazione. E la cameriera pareva intenta a portargli in continuazione il conto.
Per coronare il tutto Tom si attardò insieme a lui quando uscirono, e ricominciò a parlargli di quell’amica intellettuale di Midge e su come una volta o l’altra avrebbero dovuto avere un appuntamento insieme. Si trattenne a stento sopportando lo sproloquio, perché non voleva apparire sgarbato.
Quando tornò in ufficio, il suo umore era peggio che mai. Digrignò i denti: stava diventando una di quelle orrende giornate in cui annuire a ogni sorriso esige uno sforzo e si è costretti a stirare le labbra o a stringere i pugni sotto la scrivania per riuscire a capire quello che la gente sta dicendo.
Una di quelle giornate in cui è difficile seguire quello che si sta facendo. Scoprì di aver preso il telefono e di aver fatto il numero di Marcia senza ricordare cosa l’aveva spinto a quell’azione.
— Non potremmo cenare insieme prima della festa di stasera? — le chiese. — Vorrei parlarti.
— Mi spiace ma non posso. Ma se vieni a prendermi verso le otto potremmo fermarci da qualche parte a bere qualcosa.
— Splendido.- Sentiva che c’era qualcosa che voleva dirle in quel momento, ma non riuscì a ricordare che cosa fosse prima che lei riattaccasse.
Proprio allora udì un raschiare di stivali, e vide un uomo basso e grasso in blue-jeans avvicinarsi alla sua scrivania… e gli venne la pelle d’oca.
Oh, ricordava fin troppo bene quell’uomo atticciato visto un paio di giorni innanzi. Il guaio era che quella figura si stagliava troppo nitidamente nella sua memoria, come qualcosa uscito da un incubo.
Riusciva a ricordare, con febbrile precisione, quasi ogni singola parola detta da quell’uomo, l’esatta intonazione, ogni gesto che aveva fatto.
Riusciva a raffigurarsi con precisione il modo in cui quell’uomo fumava una sigaretta.
Ma c’erano vuoti nella sua memoria che gli facevano paura. Non riusciva a ricordare una sola parola di ciò che lui aveva detto a quell’uomo, oppure come si era comportato con lui, né quello che era scritto nella domanda di lavoro che era stata presentata da quell’individuo. Sì, era come se quell’uomo atticciato galleggiasse tutto solo nello spazio come un piccolo dio azzurro.
Soltanto con grande difficoltà riuscì a ricordarne il nome: Jimmie Kozacs, e la sua occupazione: ispettore al magnetismo.
E adesso davanti a lui, sul lato opposto della scrivania, quell’uomo aveva la stessa qualità d’una eccessiva realtà, come i ricordi che Carr aveva di lui. Come se si trovasse seduto nelle prime file d’un cinematografo e il piccolo ispettore al magnetismo, ingrandito molte volte, torreggiasse sopra di lui dallo schermo.
Poi, come da un altoparlante difettoso in fondo a quella stessa sala cinematografica, sentì l’uomo che diceva: — Ehi, sono venuto a causa di quel lavoro alla Northcott. Non era come me l’avevano descritto.
Carr divenne conscio di averlo pregato di sedersi, di aver frugato in un cassetto alla ricerca della sua domanda e della sua scheda di registrazione, di aver intavolato con lui una specie di conversazione. Divenne ugualmente conscio, man mano che il colloquio proseguiva, delle energiche e indignate proteste del signor Kozacs a proposito di ciò che si aspettavano che facesse un ispettore al magnetismo, alla Northcott.
Ma durante tutto quel tempo continuò a essere affascinato dall’eccesso di realtà del signor Kozacs.
Guardare quel volto sano e arrossato, con il naso all’insù e il corpo tozzo stretto nei blue-jeans, e aspettarsi che acquistasse una tale compattezza da sfondare il pavimento e precipitare giù attraverso lo squarcio…
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