Il bar, che correva lungo la parete alla loro sinistra, era pieno zeppo per una profondità di almeno tre file di persone. Dietro al banco torreggiavano due uomini in giacca bianca dai volti cavallini. Uno stava allungando la mano dietro di sé per prendere una bottiglia, l’altro stava scuotendo energicamente un argenteo cilindro sopra la testa ma quel tintinnio si perdeva nel chiasso generale. Carr pensò che quell’uomo avrebbe potuto benissimo essere intento a eseguire un rito misterioso in onore delle fanciulle moresche del grande affresco murale dietro le sue spalle.
Quelle flessuose figure da harem suggerivano El Greco, ma qualcuno, senza dubbio Goldie, aveva incollato alcune fotografie più grandi del naturale con le effigi di popolari stelle del cinema sopra le teste di quelle figure dai vividi colori. L’effetto era strabiliante.
Tavoli gremiti senza che fra essi si riuscisse a distinguere un passaggio, si stendevano dai piedi della scala fino al bordo d’una piccola pista da ballo leggermente sopraelevata sulla quale, come una sorta di densa zuppa di vegetali rimescolata dal più pigro cuoco della creazione, una compatta massa di coppie abbracciate girava in lente curve.
La musica che accompagnava quell’elefantesco esercizio impercettibile quasi quanto il tintinnio dello shaker per i cocktail, giungeva da qualche parte dietro una falange di spalle nere o nude, alternativamente rivolte verso l’estremità della parete alla loro destra.
Tutti, perfino i ballerini, sembravano parlare quanto più in fretta possibile per farsi uscire le parole di bocca con tutta la forza concessa dai polmoni annebbiati dal tabacco.
Due coppie vennero dritte verso Carr. Lui le scansò con una rotazione improvvisa, urtando un cameriere che stava aggirando l’estremità del banco del bar con un vassoio di cocktail. Il cameriere riuscì a non perdere l’equilibrio mentre gli altri passavano e insieme una nota esplosiva si levava sopra la falange, seguita da un veemente applauso, mentre la gente cominciava a battere i piedi sul tappeto; Carr sostituì due bicchieri di cocktail con due biglietti da un dollaro, mentre il cameriere proseguiva e un’altra coppia s’interponeva fra loro. Reggendo con destrezza i due cocktail con una mano, Carr si rivolse a Jane. Ma lei l’aveva già lasciato e stava avanzando lentamente in mezzo alla calca a qualche tavolo di distanza. Più oltre c’era una porta molto frequentata con la scritta “Cani da ferma” accanto a un altra, ugualmente frequentata, che diceva: “Cani da punta”. Carr sogghignò, si appoggiò a una parete, chiuse gli occhi, mandò giù uno dei cocktail, s’infilò in tasca il bicchiere vuoto e sorseggiò lentamente l’altro.
Quando riaprì gli occhi, i ballerini erano tutti spremuti dentro nicchie e anfratti intorno ai tavoli, fino a quel momento impercettibili nella calca. La falange, disperdendosi, aveva rivelato un uomo volgarmente grasso la cui pancia premeva contro la tastiera d’un minuscolo pianoforte color crema. Un individuo basso dall’aspetto scimmiesco, con lo sparato d’un bianco abbacinante (di sicuro Goldie, finalmente) era in piedi sul bordo della pista da ballo vuota e stava proclamando con una voce alta e rauca la cui totale mancanza d’un genuino entusiasmo avrebbe potuto benissimo suonare a critica ingenerosa: — E adesso, un grosso e bell’applauso alla pollastrella!
Gli zelanti pestatappeti si misero di nuovo al lavoro. Goldie, scendendo dalla piattaforma, li gratificò d’un gelido sorriso di scherno. Le mani del grassone cominciarono a scorrere su e giù lungo la tastiera come due grossi sorci bianchi. E una bionda con addosso un succinto abitino nero salì sulla pista da ballo. Stringeva in una mano qualcosa che avrebbe potuto essere un logoro manicotto.
Ma proprio mentre l’applauso esplodeva, la maggior parte delle persone ai tavoli ripresero a parlottare fra loro.
Carr rabbrividì. Ecco, pensò all’improvviso: il palcoscenico vuoto, il pubblico che non ascolta, il rituale meccanico. Il baccanale ridotto a una festa sbronzatola precalcolata e motivata dal profitto sotto la direzione di un Pan ormai rammollito che da duemila anni faceva la sua replica. L’orribile ritmo d’un progresso senza nessuno scopo. Riusciva quella gente a vedere o a udire? Ad assaporare, a toccare? Traevano almeno un brivido di piacere dalla loro sbronza? Oh, in quali sterili vicoli ciechi la frusta del desiderio di bellezza ha condotto lo spirito quasi morto, se non già morto del tutto, dell’uomo!
La bionda sollevò il braccio e il manicotto si dispiegò mostrando una piccola faccia di legno dipinto che, coprendo la mano della donna a guisa di berretto e rendendola così invisibile, era allo stesso tempo sciocca, spaventata e libidinosa. Due mani in miniatura sbattevano accanto a essa. La bionda cominciò a mugolare al ritmo della musica.
Continuando a gingillarsi con il pianoforte, il grassone lanciò tutt’intorno una rapida occhiata. Con una sorta di rapido cinguettio, quasi una sciocca risatina, confidò al suo pubblico: — E adesso ascolterete la triste storia di quella sfortunatissima creatura, Peter Pupazzo.
Carr terminò il suo secondo drink con una singola sorsata e si guardò intorno cercando Jane, ma non riuscì a vederla.
— Peter era un pupazzo perfetto — intonò con voce discorsiva il grassone, accompagnandosi con un’adeguata cascata di note. Carr si sporse in avanti, corrugando la fronte. Era difficile ascoltare con tutto quel chiacchierio intorno. — Sì, Peter era il miglior Pinocchio di tutti. Era stato scolpito da un pezzo di legno per assomigliare a un essere umano in ogni più minuscolo dettaglio, oh, proprio in ogni più minuscolo dettaglio. Peter aveva tutto quello che ha un uomo… e l’aveva di legno!
Il pupazzo lanciò un’occhiata languida alla bionda. Lei l’ignorò e cominciò ad accennare a un languido passo di danza.
Il grassone si girò verso i tavoli sbattendo le ciglia. — Ma aveva un difetto! — disse quasi strillando. — Voleva essere vivo! — Poi riprendendo il suo pigro cinguettio: — Sì, il nostro Peter voleva essere un uomo. Voleva fare tutto quello che fa un uomo. Voleva fare perfino quelle cose che mai e poi mai pensereste che possano venir fatte da un gentiluomo… e con le sue parti di legno!
Qualche fragorosa risata si levò qua e là tra il cicaleccio generale. Le mani del grassone sfrecciarono velenose lungo la tastiera, destando sognanti toni pastorali. — Poi, in una splendida giornata di primavera, mentre Peter stava vagando attraverso i prati desiderando essere un uomo, gli capitò di vedere una bellissima, semplicemente incredibile, stupenda bionda. Peter rimase scosso giù giù fino al suo nocciolo di legno. Sentì un gonfiore nel suo piccolo e legnoso… — il grassone rivolse un rapido sorriso complice al suo pubblico — …cuore.
Battendo le mani in tutti i modi possibili e immaginabili e spalancando speranzosamente la bocca, il pupazzo stava facendo una corte spietata alla bionda. Lei chiuse gli occhi, sorrise, scosse la testa e continuò a mugolare.
Carr osservò Jane che si stava facendo strada fra i tavoli. Ma si stava allontanando da lui. Cercò di attirare il suo sguardo.
— …e così Peter decise di seguire la bionda fino a casa. — Il grassone produsse l’imitazione d’un rumore di passi con l’ottava superiore. — Pink-pink-pink… fecero i suoi piedini di legno… pink-pink-pink.
Jane raggiunse la piattaforma e, con vivo stupore di Carr, vi salì. Carr accennò a farsi avanti, ma i tavoli gremiti lo ostacolarono.
Inoltre, contrariamente a quanto si aspettava, nessuno pareva incline a badare a Jane. Goldie non era visibile da nessuna parte, il pubblico rumoreggiante non mostrava di essersene accorto, e il grassone e la bionda, a quanto pareva, avevano deciso d’ignorarla almeno per il momento.
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