Con un grido sollevò le braccia e di corsa, barcollando, attraversò il marciapiede descrivendo un’ampia curva che lo fece incontrare con Jane, cosicché svoltarono l’angolo mano nella mano.
E adesso non erano più il principe e la principessa ma i figli del mago, gli apprendisti dello stregone che avevano rubato i mantelli dell’invisibilità, membri privilegiati di qualche moderno e magico Club del Fuoco Infernale. Sotto i loro piedi alati i marciapiedi filavano via. Le insegne al neon accarezzavano le loro guance con lampeggiamenti color topazio, rubino e zaffiro. I motori e i clacson delle automobili intonavano una musica melodiosa, che accelerava il ritmo nervoso, adatta agli acrobati che si stavano preparando al loro numero principale.
Attraverso il loro cammino l’atrio d’un teatro stava vomitando un’orda ciarliera di spettatori con le fumanti sigarette in bocca, le mani alzate per chiamare i tassi. Oh, la gioia meravigliosa di passare fra loro in corsa, di spingere quelle spalle incipriate, di aggrovigliare fra loro quasi inestricabilmente i soprabiti tenuti sul braccio, tirando cravatte e scialli sotto il bagliore delle batterie di gialli riflettori, saltando su e sghignazzando come scimmie davanti alle facce d’individui troppo composti o sorpresi per avere il coraggio di far capire che vi avevano visti. Lanciandosi poi con una piroetta fuori dell’area della mischia come esperti giocatori di football americano, percorrendo a lunghi passi mezzo isolato vuoto salvo per il finto cieco accucciato per terra, tempestandolo con una manciata di centesimi, tuffandosi poi in mezzo a una banda di sbandati sbucati fuori da un cinematografo rococò del 1925 (la stessa tana che lui e Jane avevano disertato due sere prima per andare a giocare a scacchi), servendoli nella stessa maniera in cui avevano servito i loro più ricchi e altrettanto imbecilli congeneri in fondo all’isolato.
Poi, con un’esibizione di destrezza tanto spericolata da far rizzare i capelli, giocata sulle frazioni di secondo, lanciarsi dal marciapiede e sfrecciare fra un tassi che veniva avanti a tutta velocità e una berlina verde, facendo le boccacce ai conducenti, e quindi quasi scivolare e stendersi sui luccicanti binari d’un tram che procedeva imbufalito come un rinoceronte, riacquistando l’equilibrio con grande abilità per planare fra i paraurti cromati in movimento delle automobili in arrivo più oltre, raggiungendo infine il marciapiede opposto con le orecchie che vi rimbombavano d’un grande urlo come quello che poteva aver accolto Blondin durante la sua prima traversata delle cascate del Niagara su una fune… per rendervi conto che eravate stati voi a lanciare quell’urlo!
Oh, sibilare all’orecchio d’un grassone dal volto soddisfatto di piccolo borghese arricchito: — La Corte Suprema ha appena dichiarato incostituzionali i serials televisivi! — Urlare a un uomo dall’aria solenne con una camicia da undici dollari: — I democratici hanno rizzato una ghigliottina nel Grant Park! — Dire a una ragazza dai modi affettati e gli occhi assonnati, avvolta in un maglione: — Sono un talent scout, vieni con me. — E a un individuo bene abbigliato, con un’aria di superiorità: — Sondaggio Gallup. Approva la politica di Carlo Magno nei confronti dei Sassoni? — E a un impiegato scansafatiche: — Gli spogliarelli sono tornati di moda. — E a un muratore di passaggio con il suo secchio: — Birra gratis per tutti dietro il banco, chiedi di Clancy. — A un allibratore dalla faccia di pesce: — Ecco, prendi il mio portafoglio. — A un intellettuale allampanato con la valigetta e il passo da stenografo di tribunale: — Guarda il cielo. Una muraglia ribollente di catastrofi atomiche, accese da esperimenti poco giudiziosi fatti dagli svedesi, sta avanzando attraverso il Labrador, lungo la strada del grande cerchio, alla velocità di millesettecentonovantasette miglia all’ora.
E infine, ansanti, i fianchi punzecchiati da una deliziosa mancanza di fiato, lasciarsi cadere sul bordo del marciapiede vicino a un incrocio pieno di traffico, con la schiena appoggiata a un bidone metallico per la spazzatura e ridere, ridere, rantolando, l’uno sul viso dell’altro, piegandosi in due dalle irrefrenabili risate, dopo ogni nuova occhiata alla folla frettolosa su quel grande nastro trasportatore chiamato marciapiede, ogni singolo volto troppo compito o accecato dalla noia per guardarvi, e gli altri volti ugualmente legnosi dietro al volante, nell’interminabile colonna di macchine col suo eterno, sussultante avanzare, fermati e rimettiti in moto e quasi vi schiacciano i piedi nel passarvi accanto grugnendo.
Proprio allora risuonò una sirena della polizia e un grande furgone grigio si arrestò borbottando davanti a loro. Senza esitazione Carr agguantò Jane e la fece sedere sul predellino posteriore poi si arrampicò accanto a lei.
La luce del semaforo cambiò e con un balzo il furgone attraversò l’incrocio. Il gemito della sirena crebbe di volume e si fece acuto quando un cellulare svoltò nella loro strada a un isolato alle loro spalle. Si portò tutto a sinistra, a aggirando un’intera colonna di macchine e sbandando s’infilò in uno spazio dietro di loro. Carr e Jane guardarono negli occhi i due poliziotti dalla mascella arrossata. La ragazza fece loro marameo.
Il cellulare si arrestò con una brusca frenata accanto al marciapiede e parecchi poliziotti si riversarono fuori da esso facendo irruzione in un albergo dall’aria squallida.
— Là non ci troveranno — esclamò Carr sbeffeggiante. — Noi siamo di un’altra classe. — Jane gli strinse la mano.
Il furgone passò sotto il cupo baldacchino d’acciaio della sopraelevata. Il motore ringhiò quando affrontò la salita fino al ponte.
— Ho una chiatta privata sul fiume — dichiarò Carr in tono allegro. — Di poche pretese ma intima. E con un battelliere che è un grande intellettuale. Un gigante fisico e mentale. Ci scorterà fino ai porti dell’Inferno e ritorno e parlerà di filosofia con noi per tutto il tragitto.
— Non stanotte — replicò Jane.
Carr le indicò l’estremità sfasciata della barriera zebrata. — È stato il tuo amico a far questo quando è passato — l’informò amabilmente. — Vorrei che fosse qui con noi. — Guardò Jane. — No, in tutta sincerità non lo voglio — si corresse.
— Neppure io — gli disse lei.
I loro volti erano vicini: fece per stringerla fra le braccia ma un improvviso accesso di spirito animalesco lo indusse invece a piantare il palmo delle mani contro il predellino e ad alzarsi in piedi, agitando le braccia. Ricadde indietro nel furgone quando Jane lo tirò giù. — Non sei diventato infrangibile sai — gli disse lei baciandolo e rimettendosi dritta.
Mentre Carr si agitava per sedersi di nuovo accanto a lei, il furgone discese rapidamente il pendio di mattonelle consunte sull’altro lato del ponte, arrestandosi infine con uno stridio di freni. Un tendone verde e bruno si stendeva fin sopra il bordo del marciapiede. Sopra il tendone, su uno sfondo di antiche finestre dipinte di nero, un’insegna ammiccante in neon azzurro proclamava a caratteri cubitali: Goldie’s Casablanca.
— Siamo noi — dichiarò Carr. Saltò giù e sollevò Jane dal predellino mentre il furgone si rimetteva in moto.
All’interno della massiccia porta di vetro sotto il tendone un individuo alto, in frac, con lo sguardo vuoto da ex allenatore di pugilato, stava protestando sottovoce con un grassone che agitava freneticamente un braccio e che lui teneva inchiodato contro il muro con una mano. Jane e Carr passarono accanto ai due e lui sfoderò parecchi biglietti da un dollaro e li tenne stretti fra l’indice ripiegato e il pollice. Discesero una breve rampa di scale, fecero una curva a gomito e si trovarono nel più rumoroso e affollato night club del mondo.
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