E così era successo.
— Io non sono Richard — dissi. — Non so che idea tu ti sia fatta sul mio conto, ma io non ti ho portata qui per spassarmela un week-end a spese di Broun. Ti ho portata qui perché stavi scappando da Richard e ho pensato che questo fosse un posto sicuro per nascondersi. E questo è tutto. Io sono qui per leggere le bozze del Legame del Dovere e parlare con un tipo dalle ossa lunghe e le orecchie grandi. Ho preso una suite e ho dato un cognome fasullo perché in questo modo Richard non potrà scoprirci, ma se vuoi due camere separate, posso…
— Non è questo — mi interruppe lei, stringendo il copriletto fra le dita contratte. — Non ho mai pensato che tu… la suite va bene, Jeff. Sono contenta che non siano camere separate perché ho bisogno di avere qualcuno vicino, la notte. E non devi biasimare Richard per quello che è successo. È stata colpa mia. Sono io che non avrei dovuto aggrapparmi a lui. Questo ha reso le cose più difficili. — Lasciò andare il copriletto e mi guardò. — I sogni hanno spaventato Richard. Ha avuto paura che mi facessero del male, e così ha tentato di fermarli, ma io non posso permetterlo. Ho un dovere verso i sogni.
— E hai paura che anch’io mi spaventi e che cominci a metterti il Thorazine nel cibo. Te l’ho detto, io non sono Richard.
— Ora sto bene. Il Thorazine dev’essere stato del tutto smaltito, Me ne rendo conto, perché mi sento molto meglio. Non c’è motivo di andare da un dottore. Proverebbe a fermare i sogni. Mi darebbe qualche altra medicina.
— Ma io non ho detto di andare da un dottore — risposi, impotente, e subito mi accorsi che invece l’avevo detto. — Vuoi dire il dottor Barton? È lui l’uomo che Broun mi ha chiesto di intervistare. È una persona che soffre di acromegalia, lo stesso disturbo che aveva anche Lincoln, e poi non è nemmeno un dottore. È un veterinario. Quando ho chiamato, sua moglie mi ha chiesto se desideravo consultarlo per un cavallo. — Fu un tentativo di battuta. — So che è tuo dovere continuare a fare i sogni. Mio dovere è prendermi cura di te mentre questo avviene. Ti prometto che non tenterò di fermarli.
— Okay — disse lei. Passò le mani a lisciare il copriletto spiegazzato.
— E ora cosa ne dici di una buona colazione, e poi di andare a esplorare tutte le attrazioni di questa amena località? Mary Washington aveva questo specchio che oggi la gente fa a pugni per ammirare.
— Benissimo — fece lei, sorridendo. — Chi era Mary Washington?
— Non lo so — e abbassai gli occhi al dépliant. Lo avevo ridotto a una illeggibile palla colorata. — La madre di George Washington? O forse sua figlia? Aveva delle figlie George Washington? — Lei stava fissando il dépliant. — Ne prenderò un altro nell’ingresso. — E lo gettai nel cestino.
— Annie, andrà tutto bene — aggiunsi. — Mi prenderò cura di te.
— Lo so.
Mary Washington era la madre di George. Facemmo colazione in una caffetteria di fronte all’albergo e poi attraversammo a piedi la cittadina per vedere lo specchio da toeletta di Mary e la sua meridiana in una piccola casa ai piedi dei giardini di Kenmore.
Sorvegliai Annie con ansia per tutta la mattinata, ma lei aveva un bell’aspetto. Molto più che buono. La tiepida aria di primavera e la camminata sembravano farle molto bene. Rise ai miei commenti su Mary Washington, quando mi chiesi che tipo di persona doveva essere stata visto che la figlia l’aveva confinata il più lontano possibile dalla propria abitazione; disse — Probabilmente parlava di quell’orribile specchio da toeletta tanto quanto la guida che ci ha accompagnato oggi.
E sorrise, un bellissimo sorriso sereno. Stranamente, la faceva sembrare più grande, più simile a una donna che a una bambina maltrattata, e io pensai “Bene, sto facendo la cosa giusta”.
Ma dopo pranzo, mentre rovistavamo nel terzo negozietto di anticaglie, cominciò ad avere l’aspetto stanco. Prese in mano un gatto di porcellana e iniziò a dire qualcosa, poi si interruppe a metà frase e andò verso la vetrina del negozio, guardando ansiosamente verso sud come se si aspettasse di veder comparire gli uomini di A.P. Hill.
— Va tutto bene? — chiesi, preoccupato che questo fosse un effetto collaterale del Thorazine.
Stringeva ancora in mano il gatto di porcellana.
— Andiamo a prendere un po’ di caffè — dissi. Era tutto il giorno che le stavo facendo ingoiare litri di caffè, nonostante le teorie del dottor Stone per cui il caffè causa brutti sogni. Non riuscivo a pensare a nessun altro modo per farle velocemente smaltire il Thorazine.
— Penso di aver preso abbastanza caffè — rispose, sorridendo. — Sto bene. Ho solo un po’ di mal di testa.
— E allora un’aspirina?
— No, sto bene. Sono solo stanca. Forse dovremmo tornare in albergo.
— Certo. Vuoi andare a piedi? Se sei stanca, posso fare una corsa a prendere la macchina. Oppure possiamo chiamare un taxi.
— Non credo che a Fredericksburg ci siano taxi — disse, appoggiando delicatamente il gatto di porcellana su un tavolino di vetro. — Non c’è ragione di preoccuparsi, Jeff. È un mal di testa da raffreddamento. Soffro di febbre da fieno. Probabilmente sono stati i germogli dei meli.
Durante il tragitto verso l’albergo sembrava star bene. Si era alzata una lieve brezza, che le allontanava i capelli chiari dal viso e le colorava le guance. — È una cittadina graziosa — disse — con tutte queste case antiche. Ci fu una battaglia qui? Durante la Guerra Civile?
— Sì. — Indicai una vecchia Ford blu dall’aria scassata con una scritta dipinta a mano sul fianco, che ci stava passando vicino. — Te l’avevo detto che c’erano taxi a Fredericksburg!
Salimmo in camera attraverso le scale esterne. Un gatto nero dalle zampe bianche era accomodato a prendere il sole sul penultimo gradino, e non manifestò l’intenzione di spostarsi per lasciarci passare.
— Ehi, ciao — fece Annie, allungando una mano per accarezzarlo. Il gatto chiuse gli occhi e si lasciò grattare, come se stesse facendole un favore. — Ho sempre desiderato avere un gatto. Ma mio padre era allergico.
— Tuo padre?
— Sì. I gatti gli provocavano macchie sulla pelle.
— Sai, non so niente di te. La tua famiglia, da dove vieni, che cosa facevi prima di iniziare a sognare i sogni di Lee. Dove vivi?
Lei si rialzò, e il sorriso era sparito dal suo volto. Aveva lo stesso sguardo di quella sera mentre ascoltava Richard dissertare sui problemi psicologici di Lincoln. — In una piccola città. Più o meno grande come Fredericksburg.
— Broun ha un gatto — dissi velocemente. — È una bestiaccia egoista. Proprio come questo qui. — Grattai il micio sotto il mento nero e feci gli ultimi gradini per andare ad aprire la porta, odiando Richard, in quell’istante, come non avevo mai odiato nessuno.
Non sapevo assolutamente nulla di Annie. O piuttosto: sapevo che aveva un padre allergico ai gatti, e che veniva da una piccola città, e dalla sua espressione era tutto quello che intendeva dirmi sull’argomento. Non la biasimavo. Richard sapeva tutto di lei. Se qualcosa non c’era sulle schede che lei aveva riempito all’Istituto o su quelle che il suo medico aveva inviato, doveva averlo scoperto durante le sedute di terapia. E ogni cosa di cui era venuto a conoscenza l’aveva usata: “Vedo che tuo padre è morto l’anno scorso. Ti sei sentita responsabile per la sua morte? Com’era? Aveva una barba bianca? Come Robert Lee? Non è a lui che si riferisce il tuo sogno?
E, oltre a tutto questo, adesso stava probabilmente passando le sue ore a chiamare i numeri indicati su quelle schede, Il Parente Più Prossimo Non Risulta all’Indirizzo Dato, per cercare di scoprire dove lei si trovasse. Non c’era da stupirsi che non mi volesse raccontare nulla. Avrebbe potuto rivelarmi un altro Richard, e allora, quando avesse dovuto scappare via anche da me, voleva essere sicura che non la potessi seguire.
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