Connie Willis - Il sogno di Lincoln

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Vincitore del John W. Campbell Memorial Award, ambito premio statunitense riservato agli autori più promettenti,
(1987) è il primo romanzo importante di Conie Willis, un’autrice che si è poi segnalata con opere di tutto rispetto.
Che accadrebbe se una donna dei nostri tempi scoprisse di poter viaggiare nel tempo grazie ai suoi poteri mentali, in particolare a una specie di ponte psichico stabilito con il generale Robert Lee, il grande sconfitto della guerra civile? Da questa premessa parte un romanzo appassionante, una cruda e realistica ricostruzione della guerra civile americana e del suo mondo, ma anche un’avventura ricca di imprevisti: per esempio; che ruolo ha nella vicenda il cavallo di Lee, Traveller? E perché un uomo dei nostri glomi sembra inspiegabilmente identificarsi con lui? Lo scoprirete con Connie Willis.

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Lasciai Annie nella stanza e scesi a confermare le camere, come signore e signora Jeff Davis. L’impiegato sogghignò quando vide i nomi. Presi in considerazione la possibilità di raccontargli che avrebbe potuto comparire un marito infuriato e di dargli venti dollari per negare la nostra presenza. Invece sogghignai di rimando e dissi — No, non siamo parenti. Ce lo chiedono tutti — e uscii per spostare la macchina nel parcheggio più piccolo vicino alla scala. Portai su le valigie.

Misi la mia nella stanza con vista sul parcheggio grande e quella di Annie nell’altra.

— Puoi rilassarti — le dissi. — Richard non potrà scoprire che siamo qui. L’unico che sapeva del mio viaggio a Fredericksburg era Broun, che si trova in California. Puoi cominciare a sistemarti e poi andremo a colazione.

Andai nell’altra stanza, chiusi la porta e poi chiamai la segreteria per ascoltare il messaggio di Broun, per accertarmi che questi non avesse lasciato il nome del suo albergo o il numero di telefono. “Sono nella assolata California a fare ricerche per il mio nuovo libro” diceva la voce di Broun. “Se lascerete il nome e il numero io sarò in grado di ascoltarli e vi chiamerò non appena possibile”.

Bene. Non aveva lasciato indicazioni su dove trovarlo e non aveva fatto cenno del proprio ricercatore. Quando mi aveva detto di prendere qualche giorno di vacanza era stato sincero. Tentai di pensare a chi altri avesse potuto dare il numero della California. Alla sua agente probabilmente, ma lei non l’avrebbe certo dato a un estraneo, nemmeno a un vecchio amico di Jeff. Forse a Mc Laws e Herndon, anche se dubitavo che avesse detto a loro che andava in California quando sarebbe dovuto rimanere a casa a lavorare sulle bozze.

Digitai il codice a distanza per attivare la lettura dei messaggi. Ci fu un clic e poi il rumore del nastro che si riavvolgeva, un altro clic e Broun che diceva “Jeff, sono in California e devo essermi portato dietro tutta la dannata nebbia. Domani incontrerò l’uomo dei sogni profetici. Chiamami se ti trovi in difficoltà con le bozze. E riposati. Sono preoccupato per te”.

Disfeci il bagaglio che avevo messo insieme la notte precedente e aprii la scatola delle bozze. C’erano anche dei libri, che non ricordavo di avere messo. Presi in mano il primo: era il volume due del Freeman. Sedetti sul letto e tirai fuori gli altri tre grossi volumi, uno dopo l’altro.

Un soldato che fugge dalla battaglia si accorge dopo alcune miglia di stringere ancora in pugno il fucile, o il cappello, o una galletta mangiata a metà, e non ne ricorda il motivo. Non ricorda nemmeno perché stia scappando via. Ed eccoci qui, a cinquanta miglia dalla battaglia in una suite alla Locanda di Fredericksburg con il R.E. Lee di Freeman e chissà cos’altro nella sacca di Annie, due Johnny il ribelle in fuga. Ma presto o tardi quel soldato avrebbe dovuto fermarsi e decidere che cosa fare. Per ora io non ne avevo idea. Ero arrivato a pensare solo a portare Annie in salvo, lontano da Richard.

Questo l’avevo fatto; avremmo potuto rimanere lì per una settimana almeno, forse di più se Broun si fosse trattenuto in California, ma presto o tardi saremmo dovuti rientrare nel Distretto di Columbia e presto o tardi avremmo dovuto rivelare la faccenda dei sogni.

Non ancora, comunque. Non c’era modo di sapere quanto Thorazine Annie avesse ancora in corpo e in quanto tempo sarebbe riuscita a smaltirlo. Il dottor Stone aveva detto che far smettere improvvisamente a una persona una medicina di quel tipo significava causarle un “tempesta di sogni”. Non potevo fare ipotesi su che cosa causasse i sogni di Robert Lee se lei aveva incubi di suo. Quello che le occorreva adesso era una colazione con un po’ di riposo e una vacanza dall’intera faccenda.

C’era un dépliant dai colori brillanti sul comò ai piedi del letto. Lo presi in mano. Forse avremmo potuto fare una passeggiata per la Fredericksburg storica, per vedere alcuni dei luoghi famosi. “Il campo di battaglia dell’America” diceva il dépliant. “Visitate lo storico Campo di Battaglia della Guerra Civile. Dove caddero in centomila! Mettetevi al posto dei generali. Tour senza guida”.

Pensai ad Annie che stava a metà collina, ad Arlington, e guardava giù verso l’erba innevata. Anche il campo di battaglia di Fredericksburg era stato trasformato in cimitero nazionale, e dodicimila soldati sconosciuti vi erano sepolti.

Forse non avrei dovuto portarla laggiù, pensai. Non aveva ancora sognato di Fredericksburg e non volevo che cominciasse. La battaglia era stata una carneficina assoluta, con i soldati dell’Unione che tentavano di attraversare una distesa piatta per difendere una cresta chiamata Le Alture di Mary. Ma Lee aveva vinto, pensai. Forse non sogna le battaglie che ha vinto.

Le altre attrazioni, a volerle definire così, erano minori: l’ufficio legale di James Monroe, il cottage di Mary Washington e Kenmore, una piantagione dove aveva vissuto la sorella di George Washington, Betty Fielding Lewis. Quando controllai sulla carta scoprii che nessuna di loro si trovava vicino al campo di battaglia, il che significava che avremmo potuto tranquillamente andarcene in giro, e poi leggere bozze e fare ciò che Broun mi aveva mandato lì a fare, cioè intervistare un dottore sulla sua acromegalia.

Presi dal portafoglio il numero che mi aveva dato Broun e chiamai il dottor Barton. Il numero era stato disattivato. Cercai nei cassetti del comò dove trovai una guida e andai a vedere sotto “Medici” nelle pagine gialle. Nessuno con quel cognome. C’era un Barton nell’elenco ordinario, ma senza “dottore”. Broun aveva detto che era vecchio abbastanza da non aver potuto ricevere le moderne cure per il suo caso. Forse era andato in pensione. Chiamai il numero.

— Ufficio del dottor Barton — disse una voce di donna.

— Bene — risposi. — Parla Jeff Johnston. Sono il ricercatore di Thomas Broun. Vorrei fissare un appuntamento con il dottor Barton.

— È per un cavallo? — chiese lei.

— No — feci io, sgranando gli occhi sul pezzo di carta che Broun mi aveva dato. — È lo studio del dottor Henry Barton?

— Sì.

— Il nome del dottor Barton è stato fornito al mio datore di lavoro, Thomas Broun, dal dottor Stone di Washington, D.C. Sto facendo ricerche per il nuovo libro del signor Broun e volevo fare qualche domanda al dottor Barton.

— È molto interessante — disse lei. — Mio marito sarà felice di vederla. Mi lasci guardare l’agenda. — Una pausa. — Potrebbe essere la prossima settimana? È molto occupato. È primavera, vede.

Non vedevo perché mai di primavera dovesse essere molto occupato, ma non lo dissi. — Non sarebbe possibile questa sera?

— Domani è domenica. Le andrebbe bene?

— Certo — risposi.

— Sa come arrivare qui? — mi chiese. — Siamo fuori città. — Mentre mi spiegava la strada, io sfogliai di nuovo le Pagine Gialle. Eccolo: dottor Henry Barton, veterinario. Interventi esclusivamente su grossi animali. Nessuna meraviglia che la moglie volesse sapere se si trattava di un cavallo.

Rimisi la guida nel cassetto, presi il dépliant e andai nella stanza di Annie. — Il dottor Barton non potrà ricevermi fino a domattina, così abbiamo tutta la giornata. Che cosa vuoi vedere? Mary Washington ha vissuto qui. Potremmo andare a visitare la casa. C’è uno specchio nella sua camera da letto che…

— Non avrei dovuto venire con te — disse lei. Era seduta sul grande letto, al centro di un copriletto bianco e verde di mussola disegnata a fiorellini e rametti che ricadeva ai lati con volant arricciati. Teneva le mani appoggiate piatte, tentando di non aggrapparsi ai fiori del copriletto così come aveva fatto con le violette africane di Broun. — Quando iniziai ad avere i sogni ero così terrorizzata che non sapevo cosa fare. Avevo paura a rimanere sola di notte, e Richard stava tentando di aiutarmi…

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