«Eh?»
«Io sto andando su Marte.»
«Oh, quello! Già, ho visto i suoi documenti… un vero peccato. E adesso parliamo di cose sensate, d’accordo?»
«Vede, signore, io sono deciso ad andare su Marte,» ripeté Don, con ostinazione.
«Ma certo, ma certo. E quando morirò, io andrò in paradiso. Nel frattempo, lei è un residente di Venere, che ci piaccia o no. Senza dubbio i tribunali decideranno, a suo tempo, se lei possa essere considerato anche un cittadino. Signor Harvey, ho deciso di lasciarla in libertà.»
«Uh?» Don fu sorpreso; non aveva pensato neppure per un momento che la sua libertà potesse essere in discussione.
«Sì. Lei non mi pare una minaccia alla sicurezza della Repubblica di Venere, e io non ho desiderio di trattenerla indefinitamente in quarantena. Basta che tenga il naso fuori da questioni sospette, e mi telefoni il suo indirizzo, non appena avrà trovato un posto in cui fermarsi. Ecco qui i suoi documenti.»
Don ringraziò l’ufficiale, raccolse i suoi bagagli, e uscì in fretta. Una volta fuori, indugiò per grattarsi ben bene le braccia, prima il destro e poi il sinistro.
Alla banchina di fronte all’edificio una lancia anfibia era ormeggiata; il timoniere era appoggiato al timone, pigramente. Don disse:
«Mi scusi, ma io voglio mandare un messaggio radio. Potrebbe dirmi dove devo andare?»
«Certo. All’I.T. T. Edificio di Strada Buchanan, Isola Centrale. È arrivato con il Nautilus ?»
«Esatto. Come ci arrivo?»
«Salti su. Dovrò fare un altro viaggio tra cinque minuti. Devono arrivare degli altri passeggeri?»
«Non credo.»
«Lei non parla come un mangia-nebbia.» Il timoniere lo squadrò ben bene.
«Sono cresciuto qui,» gli assicurò Don. «Ma sono stato via, a scuola, per diversi anni.»
«È riuscito a scivolare per un pelo sotto il reticolato, eh?»
«Già, penso di sì.»
«Fortunato. Penso che la patria sia sempre il posto migliore.» Il timoniere si guardò intorno, con aria soddisfatta, guardò il cielo livido e fangoso e le acque scure e limacciose.
Ben presto, accese il motore e staccò gli ormeggi. Il piccolo battello cominciò a muoversi lentamente, attraverso gli stretti canali, girando intorno alle isole e ai banchi di terra che si vedevano appena a pelo d’acqua. Pochi minuti dopo Don sbarcò in fondo a Strada Buchanan, l’arteria principale di Nuova Londra, capitale di Venere.
C’erano diverse persone che oziavano intorno alla banchina di sbarco; costoro lo guardarono con attenzione. Due persone erano i galoppini di qualche pensione o gruppo di camere ammobiliate; Don se ne liberò in fretta, e si avviò per Strada Buchanan. La strada era piena di gente, ma era stretta, sinuosa, e piena di fanghiglia. Due grandi insegne al neon, una su ciascun lato della strada, disperdevano con la loro luce brillante l’eterna nebbia di Venere. Su una c’era scritto: ARRUOLATI OGGI STESSO!!! LA TUA NAZIONE HA BISOGNO DI TE; l’altra esortava, in lettere più grandi: Bevi COCA-COLA - Imbottigliata nello Stabilimento di NUOVA LONDRA!
Il Palazzo dell’I.T. T. era a qualche centinaio di metri di distanza, lungo la strada, quasi all’estremità opposta di Isola Centrale, ma era facile trovarlo, poiché si trattava dell’edificio più grande dell’isola. Don salì sul bordo rialzato dell’edificio, e si trovò nell’ufficio locale della Corporazione Interplanetaria Telefono e Televideo. Una giovane donna era seduta dietro una scrivania, a uno sportello.
«Vorrei spedire un radiogramma,» disse Don.
«Siamo qui per questo.» La giovane donna gli porse un blocco e una penna.
«Grazie.» Don compose un messaggio, con un notevole sforzo di concentrazione, cercando di essere nello stesso tempo rassicurante ed esauriente, usando il minor numero di parole. Alla fine, porse il testo definitivo alla giovane donna.
La ragazza inarcò un sopracciglio, alla vista dell’indirizzo, ma non fece commenti. Si limitò a contare le parole, consultò un libriccino, e disse:
«Fanno centottantasette e cinquanta.»
Don contò la somma, notando, preoccupato, che si stava producendo una voragine nel suo patrimonio.
La ragazza lanciò un’occhiata alle banconote, e le respinse.
«Lei sta scherzando, vero?»
«Cosa succede?»
«Mi offre del denaro della Federazione. Cerca di mettermi nei guai?»
«Oh.» Ancora una volta, Don avvertì un senso di vuoto alla bocca dello stomaco, e gli parve che il pavimento si dissolvesse sotto di lui, lasciandolo in un abisso oscuro… una sensazione che ormai gli era familiare. «Senta… sono appena arrivato con il Nautilus. Non ho avuto il tempo di cambiare il denaro. Potrei inviare il messaggio con tassa a carico del destinatario?»
«A Marte ?»
«E cosa dovrei fare?»
«Be’, c’è la banca, proprio in fondo alla strada. Se fossi in lei, proverei là.»
«Penso che abbia ragione. Grazie.» Fece per prendere il messaggio; lei lo fermò.
«Stavo per dirle che lei può passarci il suo messaggio, se vuole. Avrà due settimane di tempo per pagarlo.»
«Uh? Be’, grazie!»
«Non mi ringrazi. Il messaggio non potrà partire, prima di due settimane, e lei non dovrà pagarlo finché non saremo pronti a trasmetterlo.»
«Due settimane? Perché?»
«Perché Marte in questo momento si trova esattamente dall’altra parte del Sole; il messaggio non arriverebbe. Dovremo aspettare che il pianeta esca dal cono d’ombra solare.»
«Be’, che cos’hanno i satelliti relé?»
«C’è una guerra in corso… spero che se ne sia accorto.»
«Oh…» Don si sentì un perfetto stupido.
«Accettiamo ancora dei messaggi privati, in arrivo e in partenza, sul canale Terra-Venere… sotto il diretto controllo della censura… ma non potremmo assicurare la ritrasmissione del suo messaggio dalla Terra a Marte. A meno che lei non possa dare istruzione a qualcuno, sulla Terra, per pagare la seconda trasmissione.»
«Uh… temo che questo sia impossibile.»
«Forse è meglio così. Può darsi che non le ritrasmettano il messaggio, nemmeno se lei avesse qualcuno pronto a pagare il conto. La censura della Federazione potrebbe sopprimerlo. Così, mi dia quel modulo, e io lo metterò in lista di attesa. Potrà pagare dopo.» Lanciò un’occhiata al messaggio. «A quanto pare, lei ha cominciato ad attraversare un periodo di sfortuna nera. Quanti anni ha,» diede un’altra occhiata al modulo, «Don Harvey?»
Don glielo disse.
«Uhm… dimostra più dei suoi anni. Io sono più vecchia di lei; credo che questo mi renda più o meno sua nonna. Se ha bisogno di qualche altro consiglio, si fermi qui, e chieda a nonna Isobel… Isobel Costello.»
«Uh, grazie, Isobel.»
«Niente di speciale. Normale servizio dell’I.T. T.» Gli fece un caldo sorriso. Don se ne andò, sentendosi incredibilmente confuso.
La banca era vicina al centro dell’isola; Don ricordò di essere passato davanti all’edificio. La scritta sul pannello di vetro diceva: BANCA D’AMERICA E HONGKONG. Sopra questa scritta era stato incollato del nastro adesivo, che cancellava quasi completamente le lettere, e più in basso c’era un’altra scritta, dipinta a mano con vernice bianca: COMPAGNIA DI DEPOSITI E CREDITI DI NUOVA LONDRA. Don entrò, scelse la fila più breve, e dopo un po’ di attesa spiegò le sue esigenze. L’impiegato indicò con il pollice una scrivania, dietro una grata metallica.
«Chieda a lui.»
Dietro la scrivania era seduto un anziano cinese, che indossava una specie di lunga vestaglia nera. Quando Don si avvicinò il cinese si alzò, s’inchinò profondamente, e disse:
«Posso esserle utile, signore?»
Don spiegò nuovamente la situazione, e posò il suo fascio di banconote sulla scrivania del banchiere. L’uomo guardò il denaro senza toccarlo.
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