«Non so come, ma io riuscirò ad arrivarci,» insisté Don.
«Dovrai andare a piedi.»
Raggiunsero il ponte «G». Don si guardò intorno, e disse:
«Da questo punto, conosco la strada. Devo essere sceso un ponte di più.»
«Due ponti,» lo corresse McMasters. «Ma io ti accompagnerò, finché non sarai tornato nei tuoi quartieri. C’è un modo in cui tu potresti arrivare su Marte… probabilmente l’unico modo.»
«Uh? Come? Me lo dica.»
«Prova a immaginarlo. Non ci saranno navi passeggeri, fino a quando la guerra non sarà finita, ma è più che certo il fatto che sia la Federazione che la Repubblica invieranno un corpo di spedizione su Marte, prima o poi, con l’intenzione di precedere la parte avversa, e di assicurarsi le risorse del pianeta rosso, impedendo al nemico di utilizzarle a sua volta. In una guerra interplanetaria, è impossibile che i contendenti trascurino un pianeta importante come Marte… e lo raggiungeranno, prima o poi. Se fossi in te, mi arruolerei nell’Alta Guardia. Non nella Media Guardia, né nelle Forze di Superficie… la fanteria non avrà mai la possibilità di raggiungere lo spazio… ma nell’Alta Guardia.»
Don rifletté sul suggerimento.
«Ma anche se lo facessi, non avrei molte possibilità di essere prescelto per la missione, no?»
«Non sai nulla della politica delle caserme? Be’, si tratta di un’arte antica come il mondo, e molto più efficace della politica normale. Procurati un lavoro da impiegato… qualcuno dei servizi sedentari, ai quali si accede con un po’ d’istruzione. Se hai un po’ di talento nell’arte di baciare il piede giusto, un lavoro di questo tipo ti farà restare nelle vicinanze della Base Centrale. Sarai vicino alla fabbrica delle voci, e scoprirai tempestivamente quando saranno decisi a inviare una spedizione su Marte. Bacia di nuovo il piede giusto, e mettiti in lista, offrendoti volontario per il lavoro. Questo è l’unico metodo con il quale potrai forse raggiungere Marte. Ecco la tua porta. Fa’ attenzione a non perderti di nuovo a prua.»
Le parole di McMasters riecheggiavano nella mente di Don, che le soppesò a lungo, nei giorni che seguirono. Si era aggrappato ostinatamente all’idea che, una volta giunto su Venere, sarebbe riuscito a ottenere un passaggio per Marte, in un modo o nell’altro. McMasters lo aveva costretto a rivedere tutte le sue idee, e a iniziare un processo ragionativo completamente diverso da quello iniziale. Sì, era molto bello dire che, in un modo o nell’altro, lui sarebbe riuscito a salire a bordo di un’astronave diretta a Marte… legalmente o illegalmente, come passeggero pagante, come membro dell’equipaggio, perfino come clandestino. Ma nel caso non ci fossero più state astronavi dirette a Marte? Nel caso che la guerra avesse chiuso totalmente le linee di comunicazione tra i mondi, lasciando il sistema solare nella situazione precedente alle Intese, ai voli cosmici, alla Federazione? Un cane perduto avrebbe potuto ritrovare la strada e raggiungere il padrone… sì, ma un uomo non era capace di percorrere un solo miglio, nello spazio vuoto, senza trovarsi a bordo di un’astronave. Era un’impossibilità totale…
Ma c’era qualche merito, nell’idea di arruolarsi nell’Alta Guardia? Pareva una soluzione troppo drastica, perfino se avesse potuto funzionare… e benché Don sapesse pochissimo sulle organizzazioni militari, aveva il cupo sospetto che il sergente avesse semplificato eccessivamente le cose. Servirsi dell’Alta Guardia per arrivare su Marte per i propri scopi avrebbe potuto rivelarsi insoddisfacente e pericoloso come tentare di rubare un passaggio a bordo di un razzo sedendosi sugli alettoni.
D’altra parte, Don si trovava in un’età alla quale l’idea di prestare servizio militare aveva un fascino già di per se stessa. L’idea della divisa, della vita militare, aveva una certa attrazione anche su di lui. Se i suoi sentimenti nei confronti di Venere fossero stati appena più forti, lui avrebbe potuto facilmente convincersi del fatto che era suo dovere schierarsi dalla parte dei coloni, e arruolarsi nell’esercito venusiano… sia che questo potesse condurlo fino a Marte, oppure no.
Arruolarsi era attraente anche per un altro motivo: l’atto avrebbe dato una prospettiva e una direttrice di marcia alla sua vita. Lui cominciava ad avvertire il primordiale, lacerante senso di tragedia del profugo in tempo di guerra… come un albero che aveva perduto le radici, come una perla che era stata scagliata fuori dell’ostrica. L’uomo ha bisogno della libertà, ma sono pochissimi gli uomini tanto forti da sentirsi felici nella libertà assoluta. Un uomo ha bisogno di sentirsi parte di un gruppo, con relazioni accettate e rispettate. Alcuni uomini si arruolano nelle legioni straniere per spirito di avventura; moltissimi altri — e sono la maggioranza — giurano fedeltà su un pezzo di carta allo scopo di acquistare un’intelaiatura di doveri e obblighi, di tradizioni e tabù, un orario per lavorare e un orario per oziare, un camerata con il quale litigare e un sergente da odiare… in breve, per appartenere a qualcosa.
Don era un «profugo», come qualsiasi vagabondo senza terra della storia; non aveva neppure un pianeta suo. Non era consapevole di questa sua necessità spirituale… ma da quel giorno, cominciò a guardare i soldati dell’Alta Guardia, quando essi passavano, cercando d’immaginare che cosa avrebbe provato indossando quell’uniforme.
Il Nautìlus non prese terra, né si accostò a una stazione spaziale. Invece, la sua velocità venne ridotta, mano a mano che l’incrociatore si avvicinava al pianeta, fino a farlo entrare in un’orbita di parcheggio circumpolare di due ore; a pochissime miglia di distanza dalle prime propaggini dell’argentea coltre di nubi eterne del pianeta. Le colonie di Venere erano troppo giovani e troppo povere per permettersi il lusso di una grande stazione orbitale nello spazio, ma una rapida orbita circumpolare di parcheggio faceva sì che l’astronave sorvolasse ogni porzione del globo ruotante, uno «spicchio d’arancio» a ogni orbita… Un traghetto partito dalla superficie avrebbe potuto decollare da qualsiasi punto di Venere, stabilire un appuntamento orbitale con l’incrociatore, e poi sbarcare nel suo porto di partenza, o in qualsiasi altro punto di arrivo, dopo avere usato il minimo teorico di carburante possibile. Non appena il Nautìlus fu entrato nell’orbita di parcheggio, una lunga teoria di traghetti siderali cominciò a sciamare intorno al grande incrociatore cosmico. I traghetti erano più simili ad aeroplani che ad astronavi, perché, benché ciascuno di essi fosse sigillato e pressurizzato per operare fuori dell’atmosfera, al momento di stabilire il contatto con le astronavi in orbita, ognuno era fornito di ali e alettoni, ed era alimentato sia da reattori atmosferici, sia da motori a razzo. Come le rane, i traghetti erano anfibi; potevano sopravvivere nell’aria e nel vuoto interplanetario.
Il Sole era molto più grande, nello spazio venusiano, e le stelle erano quasi sommerse dallo splendore dell’astro; ma il nero cosmico era più vellutato che mai. Grandi sciami meteorici percorrevano quello spazio, in direzione del Sole; ma lo scenario, a parte la maggiore vicinanza alla primaria, era abbastanza simile a quello che ogni uomo può vedere, non appena lascia i vincoli dell’atmosfera che ha respirato il giorno della sua nascita.
Un traghetto sarebbe stato scagliato, come il proiettile di una fionda, dalla superficie; i reattori sarebbero entrati in funzione, ed esso sarebbe salito grazie alle proprie ali, raggiungendo le altezze rarefatte e gelide della stratosfera, a velocità superiori alle tremila miglia orarie. Là, nello splendore fiammeggiante dello spazio venusiano, quando i reattori avrebbero smesso di funzionare per mancanza di aria, sarebbero entrati in funzione i motori a razzo, che avrebbero fornito l’ultima ‘spinta’ per raggiungere una velocità orbitale di circa dodicimila miglia orarie, permettendo al traghetto di affiancarsi a un incrociatore siderale, e stabilire il rendez-vous nel cosmo.
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