«Non ci pensi nemmeno. Anch’io stavo per andare a placare i morsi dello stomaco. A proposito, io mi chiamo Johnny Ling.»
«Piacere di conoscerla, signor Ling. Io mi chiamo Don Harvey.»
Il ristorante si trovava in un vicolo cieco, una traversale di Strada Buchanan. L’insegna annunciava RISTORANTE DUE MONDI — Tavoli per Signore - BENVENUTI GLI SPAZIALI. Tre vieni-sopra indugiavano in prossimità dell’entrata, fiutando gli odori e premendo i nasi tremolanti contro la porta chiusa da una fitta rete. Johnny Ling scostò gli animali con una spinta, e fece entrare Don nel locale.
Un grasso cantonese era in piedi dietro il bancone, a presidiare nello stesso tempo i fornelli e il registratore di cassa. Ling lo chiamò:
«Ciao, Charlie!»
Il grassone rispose:
«Salve, Johnny,» poi esplose in una ricca cantilena d’imprecazioni, mescolando con notevole imparzialità il cantonese, l’inglese, il portoghese, e il linguaggio sibilato dei nativi. Uno dei vieni-sopra era riuscito a infilarsi nel locale, quando la porta era stata aperta, e si stava dirigendo con decisione verso il ripiano dei dolci; i piccoli zoccoli della creatura ticchettavano vigorosamente sul pavimento. Muovendosi con estrema rapidità, malgrado la sua pinguedine, l’uomo chiamato Charlie scacciò l’animale, prendendolo per l’orecchio e spingendolo fuori. Sempre imprecando, Charlie ritornò al ripiano dei dolci, tirò fuori una mezza torta che aveva conosciuto tempi migliori, e ritornò alla porta. Lanciò la torta alle bestie, che si buttarono in quella direzione, in un concerto di belati e di guaiti.
«Se tu non dessi loro da mangiare, Charlie,» fu il commento di Ling, «Non se ne starebbero sempre qui attorno.»
«Tu impicciati degli affari tuoi, accidenti!»
Diversi clienti stavano mangiando al banco; nessuno di loro prestò attenzione al piccolo incidente. Ling si avvicinò al cuoco, e disse:
«È vuota la sala sul retro?»
Charlie annuì, e gli voltò la schiena. Ling condusse Don verso una porta girevole; si trovarono, dall’altra parte, in una sorta di separé, sul retro dell’edificio. Don sedette e prese il menu, chiedendosi cosa avrebbe potuto prendere facendo durare il più a lungo possibile quell’unico credito che possedeva. Ling gli tolse il menu di mano.
«Permette che sia io a ordinare? Charlie è davvero un cuoco di prima grandezza.»
«Ma…»
«Lei è mio ospite. No, non discuta. Insisto.» Charlie fece la sua apparizione a questo punto, infilandosi silenziosamente nella tenda che divideva il. separé. Lui e Ling si scambiarono qualche frase, in una rapida cantilena della quale Don non capì nulla; il cuoco si allontanò, ritornando dopo poco tempo con delle splendide frittate farcite e fumanti. L’aroma era meraviglioso, e lo stomaco di Don smise finalmente di protestare, facendo nel contempo dissolvere la protesta di Don sull’offerta di una cena.
Le frittate furono seguite da una pietanza che Don non riuscì a identificare. Si trattava di cucina cinese, ma certamente non era uno degli esempi meno degni di una nobile tradizione. Don pensò di avere identificato, grazie ai ricordi della sua infanzia, delle verdure venusiane, in quella pietanza, ma non poté esserne sicuro. Qualunque cosa fosse, era esattamente quello di cui lui aveva bisogno; cominciò a provare un caldo senso di benessere, e smise di preoccuparsi di tutto il resto.
Mentre mangiava, scoprì che stava raccontando a Ling la storia della sua vita con particolare enfasi sui più recenti avvenimenti, gli stessi che lo avevano condotto a un inaspettato atterraggio su Venere. Era molto facile parlare con il cinese, che era un eccellente interlocutore e un attento, incoraggiante ascoltatore, e non gli pareva cortese starsene semplicemente seduto, mangiando come un lupo il cibo offerto dal suo ospite, facendo scena muta.
Dopo qualche tempo, Ling si appoggiò allo schienale del suo posto, e si passò un tovagliolo sulle labbra.
«Certamente lei ha vissuto un’esperienza molto strana, e molto sconcertante, Don. Cos’ha intenzione di fare, adesso?»
Don corrugò la fronte.
«Vorrei saperlo. Devo trovare un lavoro, in un modo o nell’altro, e un posto per dormire. Dopo avere fatto questo, dovrò guadagnare, o risparmiare, o prendere a credito, il denaro sufficiente per avvertire i miei genitori. Immagino che saranno in ansia.»
«Lei ha portato del denaro con sé?»
«Uh? Oh, certo, ma si tratta di denaro della Federazione. Non posso spenderlo.»
«E lo Zio Tom non ha voluto cambiarglielo. È un vecchio figlio di una cagna, con il cuore più duro di una pietra, malgrado tutti i suoi sorrisi. In fondo è rimasto sempre un usuraio.»
«Lo zio Tom? Il banchiere è suo zio?»
«Eh? Oh, no, no… solo un modo di dire. Tanti anni fa ha aperto un negozio di prestiti su pegno. I cercatori andavano da lui, e impegnavano i loro contatori Geiger. Al viaggio successivo, lui li spolpava vivi. Dopo poco tempo, era diventato proprietario di una buona metà dei giacimenti d’uranio della zona, ed era diventato anche un banchiere. Ma continuiamo a chiamarlo ‘lo zio Tom’.»
Don ebbe la vaga sensazione che Ling fosse stato troppo ansioso di negare la parentela con il banchiere, ma non seguì quel ragionamento fino in fondo, perche tutto sommato non gli pareva importante. Ling stava parlando ancora:
«Vede, Don, la banca non è l’unico posto in cui si possa cambiare il denaro della Federazione.»
«Cosa intende dire?»
Ling sfiorò con la punta del dito una macchia di acqua rimasta sul tavolo, e tracciò il segno universale del credito.
«Naturalmente, si tratta dell’unico posto legale. Questo la preoccuperebbe?»
«Be’…»
«Non è come se ci fosse qualcosa di male, nel cambiare il denaro. Si tratta di una legge arbitraria, e l’hanno approvata senza chiedere il parere a nessuno. Lei non ne sapeva niente, no? E dopotutto si tratta del suo denaro. È giusto, no?»
«Credo di sì.»
«Si tratta del suo denaro, e lei può farne quello che vuole. Ma questo discorso è rigorosamente confidenziale… se ne rende conto?»
Don non disse niente, e Ling proseguì:
«E adesso, parlando solo per ipotesi… quanto denaro della Federazione possiede?»
«Uh, circa cinquecento crediti.»
«Vediamo.»
Don esitò. Ling disse, seccamente:
«Andiamo. Non si fida di me? Dopotutto, in questo momento si tratta solo di carta straccia.»
Don tirò fuori il suo denaro. Ling lo osservò, ed estrasse il suo portafogli, cominciando a contare delle banconote.
«Sarà difficile piazzare alcune di queste banconote di grosso taglio,» fu il suo commento. «Che ne dice del quindici per cento?» Il denaro che egli posò sul tavolo aveva l’identico aspetto di quello che Don possedeva, solo che, su ogni banconota, era stata sovrastampata lo dicitura REPUBBLICA DI VENERE.
Don fece un rapido calcolo. Il quindici per cento di quel che possedeva gli dava settantacinque crediti, più o meno… nemmeno la metà di quello che gli era necessario per mandare un radiogramma a Marte. Riprese il suo denaro e fece per rimetterlo nel portafogli.
«Cosa c’è?»
«Non mi serve. Le ho detto che avevo bisogno di centottantasette crediti e cinquanta, per pagare il radiogramma.»
«Be’… il venti per cento. E le sto facendo un favore, perché lei è un giovane nei guai.»
Il venti per cento era sempre poco, cento crediti.
«No, grazie. Lasciamo perdere.»
«Cerchi di essere ragionevole! Non posso piazzare il denaro a più di un punto o due da questa percentuale; potrei subire una perdita. Le cose stanno andando male, e la moneta subisce una svalutazione dell’otto per cento. Questa roba deve essere nascosta, e la svalutazione le farà perdere l’otto per cento del valore ogni anno. Se la guerra continua per molto tempo, si tratterà di una perdita. Cosa si aspetta di ottenere?»
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