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Clifford Simak: L'aia grande

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Anche pupplicato come “Il grande cortile” ed “Il lungo cortile”.

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Beasly dev’essere diventato mezzo matto dalla paura, pensò. Quando aveva visto quegli esseri che salivano dallo scantinato non doveva aver capito più niente. Era passato dritto attraverso la porta senza neanche provare ad aprirla e ora era certamente in paese a latrare in viso a chiunque si fermasse ad ascoltarlo.

In genere nessuno prestava molta attenzione a Beasly, ma se avesse blaterato abbastanza a lungo e abbastanza forte, sarebbero probabilmente venuti a controllare. Sarebbero venuti a frotte, avrebbero esaminato il luogo, sarebbero rimasti con gli occhi sbarrati di fronte alla facciata e ben presto qualcuno di loro avrebbe faticosamente cercato di ricostruire come erano andate le cose.

E non erano affari loro, si disse Taine caparbio, con il suo sempre presente senso degli affari che riaffiorava. C’era proprio un sacco di terreno là fuori nella sua aia, e l’unica maniera per chiunque di raggiungerlo era di passare attraverso casa sua. Stando così le cose, ne conseguiva che tutto quel terreno là fuori era suo. Forse non era di alcuna utilità. Avrebbe potuto anche non esserci niente. Ma prima che l’altra gente vi dilagasse, avrebbe fatto meglio ad andare ad assicurarsene.

Salì le scale e uscì verso il garage.

Il sole si trovava ancora a nord dell’orizzonte e non c’era nulla che si muovesse.

Trovò un martello, dei chiodi, qualche asse, e li portò in casa.

Vide che Towser aveva approfittato della situazione e dormiva nella poltrona dalla tappezzeria dorata. Taine lo lasciò stare.

Taine chiuse la porta sul retro e vi inchiodò sopra qualche asse. Serrò le finestre della cucina e della camera da letto e inchiodò qualche asse anche su di loro.

Questo avrebbe trattenuto i paesani per un po’, si disse, quando sarebbero venuti a far danni per vedere che succedeva.

Prese il fucile da cervi, una scatola di cartucce e da un cassetto un binocolo e una vecchia borraccia. Riempì la borraccia al rubinetto della cucina e cacciò nel sacco del cibo per sé e per Towser, cibo da mangiare strada facendo, perché di fermarsi a mangiare non c’era tempo.

Poi andò nel soggiorno e sbatté giù Towser dalla poltrona con la tappezzeria dorata.

— Andiamo, Towser — disse. — Andiamo a vedere come stanno le cose.

Controllò la benzina del camion: il serbatoio era quasi pieno.

Vi salì col cane e mise il fucile a portata di mano, innestò la marcia indietro, fece fare un mezzo giro al camion e partì in direzione nord, verso il deserto.

Il viaggio era facile: il deserto era piano come un pavimento. Ogni tanto aveva qualche asperità, ma non peggiore di quelle che c’erano in tante strade che aveva percorso a caccia di antichità.

Il paesaggio non cambiava. C’erano basse colline qua e là, ma principalmente il deserto continuava a essere livellato, dipanandosi in quell’orizzonte troppo lontano. Taine continuava a puntare a nord, in direzione del sole. Incappò in qualche banco di sabbia, ma la sabbia era dura e compatta e non gli procurò fastidi.

Mezz’ora dopo capitò sui piccoli esseri, tutti e sedici, che avevano lasciato la casa. Andavano ancora in fila, col loro passo fermo.

Rallentando, Taine si mise per un poco ad andare di fianco a loro, ma senza grandi risultati: continuavano per la loro strada, senza guardare né a destra né a sinistra. Taine accelerò e se li lasciò dietro.

Inamovibile, il sole continuava a restare a nord e questo era certo strano. Forse, si disse Taine, questo mondo ruotava sul proprio asse più lentamente della Terra e le giornate erano più lunghe. Dal modo in cui sembrava che il sole restasse fermo, dovevano essere lunghe un bel po’.

Mentre curvo sul volante fissava la distesa senza fine del deserto, fu colpito per la prima volta dalla stranezza dell’insieme in tutto il suo significato.

Questo era un altro mondo, e su ciò non c’erano dubbi, un altro pianeta orbitante intorno a un’altra stella e nessuno sulla Terra poteva avere la minima idea della sua effettiva posizione nello spazio. E d’altra parte, mediante una diavoleria di quegli strani esseri che marciavano in fila indiana, si trovava proprio davanti alla facciata di casa sua.

Dall’uniformità del deserto davanti a lui si stagliò una collina un po’ più grande. Man mano che si avvicinava cominciò a distinguere una fila di oggetti brillanti in fila sulla sua cresta. Dopo un poco fermò il camion e si mise a guardare col binocolo.

Attraverso le lenti vide che le cose brillanti erano macchinari opalini dello stesso tipo di quello dei boschi. Ne contò otto che brillavano al sole e si ergevano su rampe grigio roccia. E c’erano altre rampe vuote.

Allontanò dagli occhi il binocolo e rimase un momento a considerare l’opportunità di arrampicarsi per la collina e investigare più da vicino. Ma scosse la testa. Per questo ci sarebbe stato tempo in seguito. Era meglio continuare a muoversi. Non si trattava di una vera esplorazione, ma di una rapida ricognizione.

Risalì nel camion e ripartì, tenendo d’occhio l’indicatore del carburante. Quando si fosse avvicinato alla metà, avrebbe dovuto voltare e tornare a casa.

Sopra una confusa linea dell’orizzonte vide davanti a sé un debole biancore e l’osservò con attenzione. Di tanto in tanto svaniva per poi tornare, ma qualunque cosa fosse era troppo lontano perché potesse capirci qualcosa.

Scoccò un’occhiata all’indicatore del carburante: era vicino al “mezzo pieno”. Fermò il camion e tirò fuori il binocolo.

Mentre si portava davanti alla macchina si meravigliò di avere le gambe tanto deboli e tanto lente, poi ricordò che si doveva essere alzato dal letto ormai da moltissime ore. Guardò l’orologio: erano le due, il che voleva dire che sulla Terra erano le due di notte. Era sveglio da più di venti ore e la maggior parte del tempo era stata spesa a rompersi la schiena nel disseppellire la strana cosa nel bosco.

Puntò il binocolo e la bianca linea elusiva che aveva visto si cambiò in una catena di montagne. La grande massa scoscesa e azzurra torreggiava sul deserto col brillare delle nevi sui picchi e sulle creste. Erano a grande distanza e perfino le potenti lenti le ingrandivano a poco di più che un azzurro e nebbioso baluginare.

Spazzò l’orizzonte a destra e a sinistra con le lenti e le montagne occupavano una grande porzione della sua linea.

Puntando le lenti più in basso esaminò il deserto che si stendeva davanti a lui. Era più o meno lo stesso che aveva visto, la stessa uniformità da pavimento, le stesse collinette sparse, la stessa vegetazione irregolare.

E una casa!

Abbassò il binocolo con le mani tremanti, poi lo rialzò con un’altra occhiata. Era vero, era una casa. Una casa dall’aria buffa che si ergeva ai piedi di una collinetta, ancora nell’ombra di questa, così che non si poteva notarla a occhio nudo.

Sembrava una casa piccola. Il tetto somigliava a un cono spuntato e la casa giaceva contro il suolo come se ne fosse trattenuta per amore o per forza. C’era un’apertura ovale, che probabilmente era una porta, ma non c’era segno di finestre.

Riabbassò il binocolo e fissò la collinetta. Sette od otto chilometri, pensò. La benzina sarebbe bastata fino a quel punto, anche se egli avesse dovuto percorrere a piedi gli ultimi chilometri per Willow Bend.

Era strano, pensò, che una casa dovesse stare lì tutta sola. Per tutti i chilometri di deserto non aveva veduto alcun segno di vita, eccettuati i sedici piccoli esseri dalla faccia di topo che marciavano in fila indiana e nessun segno di costruzione artificiale, tranne le otto macchine opaline che riposavano sulle loro rampe.

Salì sul camion e lo mise in marcia. Dieci minuti dopo era di fronte alla casa, che giaceva ancora all’ombra della collinetta.

Scese dal camion e si portò dietro il fucile. Towser balzò al suolo e rimase immobile con il pelo ritto e un basso ringhio in gola.

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