Clifford Simak - L'aia grande

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Il colonnello si alzò in piedi, fremente. — Avrà molte cose a cui rispondere, Taine. Ci sono un mucchio di cose in cui il governo vorrà vederci chiaro. Prima di tutto, vorranno sapere come sia riuscito a mettere in piedi una cosa del genere. È pronto a rispondere?

— No, non credo di esserlo — rispose Taine.

Un po’ allarmato cominciò a riflettere: pensano che sia stato io a farlo e mi piomberanno addosso come un branco di lupi per scoprire come ho fatto. Gli apparvero alla mente l’FBI, il dipartimento di Stato, il Pentagono e, per quanto fosse già seduto, gli vennero meno le gambe.

Il colonnello si voltò, marciò altero fuori dalla cucina e uscì dalla porta sul retro, sbattendo la porta. Henry guardò interrogativamente Taine.

— Vuoi davvero farlo? — gli chiese. — Intendi proprio metterti contro quelli?

— Mi fanno incavolare — rispose Taine. — Non possono venire qui a prendere il mio posto senza neppure chiedermi il permesso. Non me ne frega di quello che possono pensare gli altri, questa è casa mia. Io sono nato qui e qui ho passato tutta la vita, il posto mi piace e…

— Certo — disse Henry — certo, so bene, che cosa provi.

— Può darsi che sia infantile da parte mia, ma non me la prenderei tanto se mostrassero appena un po’ di buona volontà di sedersi e discutere delle loro intenzioni una volta che abbiano preso il mio posto. Ma qui mi pare che non ci sia la minima intenzione neppure di chiedermi che cosa ne penso. E te lo dico io, Henry, la cosa è ben diversa da quel che sembra. Quello non è un posto dove noi possiamo entrare e impadronircene, checché ne pensi Washington. C’è qualcosa là fuori e noi faremmo bene ad andarci cauti.

— Stavo pensando — lo interruppe Henry — mentre sedevo qui, che la tua posizione è la più lodevole e meritevole di appoggio. Mi è venuto in mente che sarebbe da parte mia assai poco amichevole starmene qui seduto e lasciarti solo a combattere. Insieme possiamo assumere una bella squadra di cervelloni per farci vincere la battaglia legale e intanto mettiamo su una società fondiaria; così saremo sicuri che questo tuo mondo nuovo sia usato nel modo giusto… È evidente, Hiram, che io sono l’unico che possa sostenerti, fianco a fianco, in questa faccenda, dal momento che siamo già soci in quella del televisore.

— Cos’è ’sta storia del televisore? — sbraitò Abbie, sbattendo un piatto di frittelle davanti al naso di Taine.

— Ma, Abbie — disse Henry pazientemente — ti ho già spiegato che il tuo apparecchio televisivo sta dietro a quel tramezzo giù nello scantinato e non si può affatto dire quando potremo riaverlo.

— Sì, lo so — disse Abbie, portando un piatto di salumi; poi versò una tazza di caffè.

Beasly arrivò dal soggiorno e uscì dal retro zufolando.

— Dopo tutto — aggiunse Henry, sfruttando il suo vantaggio — suppongo di averne qualche diritto. Dubito che tu avresti potuto far molto se non ti avessi mandato quel calcolatore.

Ci siamo di nuovo, pensò Taine. Persino Henry pensava che fosse stato lui a combinar tutto.

— Ma Beasly non te l’ha detto?

— Beasly dice un mucchio di cose, ma sai bene che tipo è Beasly.

Questo spiegava tutto, naturalmente. Per quelli giù in paese non sarebbe stata altro che un’ennesima storiella di Beasly… un’altra fandonia che Beasly aveva inventato. Non ce n’era uno che credesse una parola di quanto Beasly andava dicendo.

Taine sollevò la tazza e bevve il suo caffè, cercando di guadagnar tempo per mettere insieme una risposta che non riusciva a trovare. Se avesse detto la verità, sarebbe suonata assai più incredibile di qualunque bugia.

— Puoi dirmelo, Hiram. Dopo tutto, siamo soci.

Crede di farmi su come un fesso, pensò Taine. Henry pensa di riuscire a far su come un fesso chiunque voglia.

— Se te lo dicessi non mi crederesti, Henry.

— Bene — disse Henry rassegnato, alzandosi in piedi — penso che una parte di questa faccenda possa aspettare.

Beasly riattraversò la cucina con gran fracasso, portando un altro carico di bidoni.

— Devo avere un po’ di benzina — disse Taine — se voglio andare fuori a cercare Towser.

— Me ne occupo immediatamente — promise Henry con voce melliflua. — Ti mando Ernie con l’autocisterna: possiamo far passare un condotto per di qua e riempire quei bidoni. E vedrò anche se riesco a trovare qualcuno che voglia accompagnarti.

— Non è necessario. Posso andare da solo.

— Se avessimo una radio trasmittente, potremmo tenerci in contatto.

— Ma non ne abbiamo E poi, Henry, non posso aspettare. Towser è là fuori, da qualche parte.

— Certamente, so bene quanto ci tieni a lui. Vai fuori a cercarlo se pensi di doverlo fare e io mi occupo delle altre questioni. Ti metto insieme qualche avvocato e così buttiamo giù un abbozzo di statuto per la nostra società fondiaria…

— Senti, Hiram — interruppe Abbie. — Ti spiace fare qualcosa per me?

— Perché? Ma certo — rispose Taine.

— Dovresti parlare a Beasly. Si comporta in maniera insensata; non c’era nessun motivo perché dovesse pigliar su e andarsene. Posso essere stata un po’ brusca con lui, ma è talmente povero di spirito che se l’è presa. È corso via e ha passato mezza giornata aiutando Towser a stanare quella marmotta e…

— Gli parlerò — promise Taine.

— Grazie, Hiram. A te darà ascolto. Tu sei l’unico a cui dà ascolto. E spero che tu possa aggiustare il mio televisore prima che tutto questo finisca. Senza, sono proprio perduta: ha lasciato un vuoto nel soggiorno. Lo sai che sta bene insieme agli altri mobili che ho…

— Sì, lo so — rispose Taine.

— Andiamo, Abbie? — chiese Henry, in attesa accanto alla porta. Alzò una mano, quale confidenziale arrivederci per Taine. — Ci vediamo, Hiram. Metto tutto a posto io.

Scommetto proprio che lo farai, pensò Taine.

Dopo che se ne furono andati, tornò verso la tavola e sedette pesantemente. La porta principale sbatté e Beasly arrivò ansimante ed eccitato.

— Towser è tornato! — urlò. — Sta arrivando e si tira dietro la più grossa marmotta che tu hai mai visto.

Taine balzò in piedi.

— Marmotta? È un altro pianeta, non ci sono marmotte!

— Vieni a vedere! — strillò ancora Beasly. Si voltò e corse di nuovo fuori, e Taine lo seguì dappresso.

Certamente somigliava in maniera considerevole a una marmotta… una specie di marmotta a taglia d’uomo. Più simile a una marmotta uscita da un libro per bambini, forse, dal momento che camminava sulle gambe posteriori e tentava di mantenere un’aria solenne pur tenendo d’occhio Towser.

Towser lo seguiva a trenta metri o pressappoco, tenendosi a distanza di sicurezza dall’enorme marmotta. Aveva tutta l’aria del buon cane da pastore e camminava quatto, attento a rintuzzare qualche colpo di testa della marmotta.

La marmotta arrivò vicino alla casa e si fermò, poi fece un dietrofront in modo da avere lo sguardo verso il deserto e sedette sulle gambe posteriori.

Girò quindi la testa massiccia per dare un’occhiata a Beasly e a Taine: negli scuri occhi limpidi Taine vide più che lo sguardo d’un semplice animale.

Taine uscì rapido dal porticato e prese il cane in braccio, stringendoselo al petto. Towser alzò il muso e leccò il viso al suo padrone. Taine rimase fermo col cane tra le braccia a guardare la marmotta grossa quanto un uomo: ne ebbe un senso di sollievo e di subitanea riconoscenza.

Adesso tutto andava bene, pensò: Towser era tornato.

Si avviò verso casa ed entrò poi in cucina.

Mise a terra Towser, prese una scodella e la riempì sino all’orlo, poi la appoggiò sul pavimento. Towser lappò l’acqua avidamente, spruzzandola dappertutto sul linoleum.

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