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Clifford Simak: L'aia grande

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Anche pupplicato come “Il grande cortile” ed “Il lungo cortile”.

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— Che c’è che non va, Towser? — chiese Taine.

Towser ringhiò ancora.

La casa rimaneva silenziosa. Sembrava deserta.

Taine vide che le pareti erano fatte di rozza muratura malamente messa insieme, con una sostanza sgretolata simile a fango come intonaco. Il tetto era originariamente stato fatto con zolle, il che era davvero strano, perché in quella parte di deserto non c’era nulla che potesse assomigliare a una zolla. Ora però, per quanto si potessero vedere connessure dove le zolle erano state messe insieme, non c’era nient’altro che terra cotta dal sole del deserto.

Tutta la casa era senza caratteristiche, priva completamente di ornamenti, senza alcun tentativo di addolcire la sua rude utilità di semplice rifugio. Era il tipo di casa che può edificare un popolo di pastori. Aveva i segni dell’età: la pietra era sgretolata e sfaldata dal tempo.

Taine vi si diresse con il fucile a tracolla, raggiunse la porta e scoccò un’occhiata all’interno. Vide solo oscurità e nessun movimento.

Si voltò a guardare Towser e vide che il cane era strisciato sotto il camion e sbirciava ringhiando.

— Resta qui in giro — disse Taine. — Non scappartene.

Col fucile proteso Taine attraversò la porta entrando nell’oscurità. Rimase fermo un istante, per permettere ai propri occhi di abituarsi alla penombra.

Finalmente poté rendersi conto della stanza in cui stava. Era semplice e rozza, con un nudo sedile di pietra lungo un muro e strane nicchie poco funzionali scavate in un altro. In un angolo stava un traballante mobile di legno, ma Taine non riuscì a capire a quale uso potesse servire.

Un vecchio posto deserto, pensò, abbandonato tanto tempo fa. Forse poteva essere vissuto lì, in un’epoca trascorsa da un pezzo, un popolo di pastori, quando il deserto era stato una pianura fertile ed erbosa.

C’era una porta che dava in un’altra stanza, e come l’attraversò udì un rombo smorzato e lontano e qualcosa d’altro tale e quale… al suono della pioggia! Dalla porta aperta che conduceva sul retro lo colpì una zaffata d’aria di mare ed egli rimase immobile nella stanza come se fosse stato congelato.

Un’altra!

Un’altra casa che conduceva a un altro mondo!

Avanzò lentamente, attratto dalla porta che dava sull’esterno, ed entrò in un giorno scuro e nuvoloso, con la pioggia che precipitava fumando da nubi che si rincorrevano selvaggiamente. Un chilometro più in là, oltre un campo di pietre grigio ferro confusamente spezzate, c’era un mare in tempesta che infuriava sulla costa, lanciando in aria grandi getti di spuma e spruzzi rabbiosi.

Uscì dalla porta, guardò il cielo e le gocce di pioggia gli colpirono la faccia con furia pungente. Nell’aria c’era freddo e umidità, e il luogo era soprannaturale… un mondo uscito da qualche antica leggenda gotica di fantasmi e di spiriti.

Diede un’occhiata in giro, e non c’era nulla da vedere, perché la pioggia cancellava il mondo al di là di quella parte di costa, ma al di là della pioggia sentì o gli sembrò di sentire la presenza di qualcosa che gli fece correre brividi per la spina dorsale. Deglutendo per il terrore, Taine si girò verso la porta e si precipitò in casa.

Un mondo estraneo, pensò, era già abbastanza; due mondi estranei erano più di quanto uno potesse sopportare. Fu scosso da un tremito per la sensazione di completa solitudine che gli era nata in mente; all’improvviso questa casa dimenticata da tanto tempo gli divenne insopportabile e si precipitò fuori.

Fuori brillava il sole e c’era un gradito calore. Taine aveva gli abiti inzuppati di pioggia e piccole gocce di umidità si stagliavano sulla canna del fucile.

Guardò in giro in cerca di Towser, e non c’era nessuna traccia del cane. Sotto il camion non c’era: non era da nessuna parte.

Taine emise un richiamo, ma non ci fu risposta. Il suono della sua voce era vuoto e solitario nel deserto e nel silenzio.

In cerca del cane andò dietro la casa, e sul retro della casa non c’era nessuna porta. Le rozze mura della casa erano piegate in quella buffa curva e la casa non aveva affatto il retro.

Ma Taine non provava interesse: se l’era immaginato che sarebbe stata così. Adesso cercava il suo cane e sentiva il panico sorgergli dentro. In un certo modo si sentiva molto lontano da casa.

Passò tre ore a cercarlo. Tornò dentro la casa, ma Towser non c’era. Rientrò nell’altro mondo e cercò tra le rocce ammassate, ma Towser non c’era. Ritornò nel deserto, fece il giro della collina, poi si arrampicò sulla cima e adoperò il binocolo per vedere nient’altro che un deserto senza vita che si stendeva in tutte le direzioni.

Morto di stanchezza, inciampando, mezzo addormentato anche se camminava, ritornò al camion.

Vi si appoggiò contro e cercò di rimettere insieme i pensieri.

Continuare come aveva fatto fino a quel momento sarebbe stato uno sforzo inutile. Doveva dormire un po’. Doveva tornare a Willow Bend, riempire il serbatoio, procurarsi della benzina di scorta in modo d’avere un campo di azione più ampio nella ricerca di Towser.

Non poteva lasciare lì il cane, questa era una cosa impensabile. Però doveva fare un programma, agire con intelligenza. Non avrebbe per nulla giovato a Towser andare in giro inciampando nella forma attuale.

Si spinse nel camion e si diresse a Willow Bend, seguendo ogni tanto la debole impressione che i pneumatici toccassero posti sabbiosi, combattendo una mortale sonnolenza che gli sigillava gli occhi.

Passando vicino alle colline su cui aveva visto ergersi le cose opaline, si fermò a camminare un poco per non cadere addormentato sul volante. E vide che ora sulle rampe c’erano soltanto sette di quelle cose.

Ma ora questo non significava nulla per lui. Aveva solo significato trattenere la stanchezza che lo attanagliava, stare attaccato al volante e divorare le miglia per arrivare a Willow Bend, concedersi un po’ di sonno e poi ritornare alla ricerca di Towser.

A oltre metà della strada verso casa vide l’altra macchina e la osservò con torbida confusione, perché da questa parte della casa c’erano solo due veicoli: il camion che stava guidando e la macchina nel suo garage.

Bloccò il camion e ne ruzzolò fuori.

L’auto si fermò e ne vennero fuori rapidamente Henry Horton, Beasly e un uomo che portava una stella.

— Grazie a Dio ti abbiamo trovato! — gridò Henry, correndogli incontro.

— Non mi ero perso — protestò Taine — stavo tornando.

— È partito — disse l’uomo che portava la stella.

— Questo è lo sceriffo Hanson — disse Henry. — Seguivamo le tue tracce.

— Ho perso Towser — grugnì Taine. — Devo andare. Lasciatemi andare a cercare Towser. Ce la faccio fino a casa.

Si protese ad afferrare il bordo dello sportello del camion e si tenne dritto.

— Avete sfondato la porta — disse a Henry. — Avete sfondato la porta della mia casa e vi siete presi la mia macchina.

— Dovevamo farlo, Hiram. Avevamo paura che ti fosse successo qualcosa. Beasly la raccontava in un modo che ti faceva drizzare i capelli.

— È meglio che lo mettiate nella macchina — disse lo sceriffo. — Guiderò io il camion.

— Ma devo andare a cercare Towser!

— Non può fare niente se prima non si riposa un poco.

Henry lo prese per un braccio e lo condusse fino alla macchina, di cui Beasly teneva la porta aperta.

— Hai un’idea di che posto sia questo? — gli sussurrò Henry con aria da cospiratore.

— Non lo so con precisione — brontolò Taine. — Potrebbe essere un altro.

Henry ridacchiò. — Be’, non credo che abbia poi tanta importanza. Qualunque cosa possa essere ci ha messo a posto. Siamo in tutti i notiziari, i giornali ci stanno cospargendo di titoli, la città è zeppa di giornalisti e fotografi, e stanno arrivando le personalità. Sissignore, te lo dico io, Hiram, questo farà di noi…

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