Edgar Pangborn - La compagnia della gloria
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- Название:La compagnia della gloria
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- Издательство:Nord
- Жанр:
- Год:1977
- Город:Milano
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Jenny era tra una cucciolata e l’altra: i micini nati in primavera erano già stati regalati. Nuber teneva in grande considerazione i suoi gatti. I grossi, cattivi ratti grigi non si vedevano più; erano stati scacciati da quelli piccoli e rossicci, probabilmente mutanti. Solo i gatti impedivano che la nuova varietà diventasse un disastro.
Estelle non temeva di trattare con la Compagnia Recuperi di Nupal. Il bellissimo bricco veniva di lì, e anche le splendide casseruole di ghisa, e quasi tutti gli alari dei camini delle stanze da letto, e il nobile portapiante a due piani nel solario, che i clienti non si stancavano mai di ammirare. Nella sezione superiore, rettangolare, Madam Estelle coltivava viole del pensiero e calendule; due piante alte e sane di marawan crescevano nella parte inferiore, ovale. Il portapiante era bianchissimo, senza una crepa, di una porcellana che oggi nessuno sa più fabbricare. Demetrios ed Estelle, essendo cresciuti entrambi in quello che la gente chiama ancora Ventesimo Secolo, si ricordavano la funzione più antica di quei portapiante… con rimpianto, specialmente nel freddo della latrina, le mattine d’inverno. Vivere in un secolo con un troncone di ricordi in un altro rende necessario aver cura dei punti delicati in cui c’è l’innesto.
La Compagnia Recuperi manda i suoi carri trainati da muli e con equipaggi bene armati in tutte le parti del mondo conosciuto, fin dove possono condurli le strade in sfacelo del Tempo Antico o quelle nuove e polverose, alla ricerca del ciarpame e dei tesori che la Compagnia può vendere guadagnandoci. Si sentono certe storie, sul conto degli uomini addetti alla raccolta, che ruberebbero e watergaterebbero e roba simile. È un commercio destinato a esaurirsi, certo, e chi lo esercitava non lo dimenticava. Nel 47, la Compagnia stava pensando di creare una fonderia, con il carbone di legna delle foreste di Nupal e il minerale prelevato dalle miniere di ferro che nel Tempo Antico erano state abbandonate perché poco redditizie; e pensava anche di assimilare alcune delle piccole industrie della città di Maplestock. Erano chiacchiere, per lo più… ma non si poteva mai sapere, con Nupal. Sebbene fosse stata inclusa nella Repubblica del Re con il trattato di Maplestock, nell’Anno 21, Nupal godeva di una sua semindipendenza, e non era disposta neanche a dire a Nuber che ora fosse, se non poteva guadagnarci qualcosa. — In Comune, — disse Demetrios, mentre usciva per andare alla latrina. — Ugh!
— Quella storia della licenza?
— Sì. E che l’idiota che ha avuto l’idea possa venire illuminato da un sasso asciutto. C’è della carta, là fuori?
— Lo spero, — disse Estelle con dignità, ma poi aggiunse, più dolcemente: — Beh, la carta che ci arriva da Maplestock è robaccia… Va via in fretta e io ne ho adoperata un po’ per… per scrivere. Appunti, vedi.
— Non importa, cara. Nel Tempo Antico c’era troppa carta. Ci soffocava, diceva sempre mio padre.
— Siediti, Dimmy, — disse Estelle quando lui tornò. Jenny gli saltò sulle ginocchia. — Ti preparo un uovo.
— Sii benedetta. Se non ti è di troppo disturbo.
— Tsha-sha, — disse Madam Estelle, battendogli una mano sul braccio. Aveva sessantacinque anni: era una giovane madre diciottenne, in una città industriale del Connecticut, quando il mondo era andato a pezzi. — La licenza per raccontare storie! Non so dove andremo a finire. Un giorno o l’altro quelli della Città Interna andranno troppo in là… a furia di ficcare il naso e di intromettersi. E tasse, tasse, tasse! — Ruppe delicatamente l’uovo nel tegame. Di mattina Madam Estelle propendeva per una visione un po’ rivoluzionaria, troppo faticosa da conservare nelle interminabili “ore del pomeriggio e della sera, quando doveva ricorrere alla consolazione dello spirito di granturco.
— Un bell’uovo scuro, — disse Demetrios. — Immagino sia di una delle galline di Somerville. Quelle di Obadiah prima o poi finiranno in pentola, dice Bab. — Per Demetrios i polli dei due pollai nell’orto, sotto la supervisione di Somerville, il gallo rosso come un peperone, e del grave Obadiah screziato di grigio, erano conoscenti preziosi, sebbene fosse Babette ad avere il compito di curarli e non ammettesse intromissioni. Demetrios badava alla mucca, Julia.
Estelle non si lasciò fuorviare. — Dimmy, mi chiedo persino se non sia pericoloso tenere il mio diario. Se viene qualcuno a curiosare, diciamo quando non mi sento troppo bene, e magari ho bevuto troppo tè, e si porta via il mio libro chiuso a chiave perché qualche nuova legge dice che può farlo, ecco lì la mia anima indiscreta messa a nudo. Per gli avvoltoi. Non avrebbero rispetto per i miei capelli grigi, se dicono che è sovversione… roba da matti, proprio! Cosa c’è a Nuber che valga la pena di sovvertire?
— Tu non hai i capelli grigi, — disse Demetrios. — Guarda i tuoi bei capelli bruni, in confronto ai miei, che sono grigi davvero. Porta qui il tuo tè e siediti, Estelle. E parlami del tuo libro chiuso a chiave, se vuoi.
— No, Dimmy. — Estelle gli portò il tè. Si chinò su di lui per baciarlo sulla sommità del capo, stringendo i capelli lunghi e spettinati. Poi cambiò idea a proposito del tè; e si diede da fare in cucina per rassettare, anche se non ce n’era bisogno, perché Babette teneva tutto in perfetto ordine. — No, spesso penso che vorrei parlarne, ma in un modo o nell’altro non ci riesco mai. (Non vuoi uscire, Jenny?) È solo un libro, una specie di… libro. (Ho capito, vuoi uscire.) E questa è l’ora che vado sempre a scriverlo. — Ma indugiò sulla porta della sua stanza da letto, turbata al pensiero della giornata di Demetrios. La sua stanza un tempo era stata una dispensa, e lei l’amava come un topo ama il suo nido, e nessuno, tranne Babette, veniva mai invitato a entrarvi. L’unica finestra dava verso est, sull’orto, e le mattine arrivavano fino a lei fresche e giovani.
— Non devi scusarti, — disse Demetrios. — Laverò io il mio piatto e il resto. Vai dal tuo libro.
Lei restò lì ancora un po’; forse desiderava di sentire se stessa dire quello che sta al di là delle parole… continuiamo tutti a farlo. Uno di questi argomenti è l’amore, l’altro la solitudine. Non esiste un linguaggio per l’uno o per l’altro, tranne poche parole e pochissimi, fortunati matrimoni di parole che riflettono un po’ di verità, come frammenti d’uno specchio infranto. — Beh, non metterti nei guai, — disse, e chiuse la porta.
La strada più corta per andare da Redcurtain Street al Palazzo del Comune, la strada che fece Demetrios, passa per la Piazza della Forca, dove si può vedere — dove non si può fare a meno di vedere — la forca, la gogna, il palo per le fustigazioni. È la stessa forca cui venne appesa la ruota di Abraham, perché tutti lo potessero vedere, come ammonimento per gli altri nemici dello Stato. Alcuni dicono che non si voleva neppure che Abraham morisse. Le case ed i negozi squallidi che circondano la Piazza della Forca risalgono anch’essi al tempo di Abraham: sono edifici che niente può redimere, tranne il fuoco che prima o poi li divorerà: cosa può fare la brigata antincendio di Nuber, con i suoi secchi, se quel mucchio di legno secco e putrido si incendia? E alcune delle persone che oggi si affacciano alle finestre per studiare i particolari d’una fustigazione o d’una impiccagione dovevano aver fatto a gomitate, diciassette anni prima, per contendersi i posti migliori, per vedere Abraham sulla ruota. Molti dovevano essere morti, nel frattempo: il mondo attuale non è bonario, e perciò qualcuno poteva essere morto in una rissa, e altri se li erano portati via il vaiolo, il colera, la febbre gialla. Alcuni potevano essersene semplicemente andati, lasciando il posto a nuovi venuti che magari avrebbero osservato un altro Abraham morente con la stessa eccitazione inquieta, e magari l’avrebbero lapidato.
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