Le guardie mi guardarono di traverso, ma mi procurarono una coperta e mi lasciarono dormire. Mi sdraiai sulla spiaggia e chiusi gli occhi.
Per ritrovarmi in una stanza strana, circondato da macchine piene di luci intermittenti e da schermi percorsi da linee curve colorate che pulsavano dappertutto. Il soffitto brillava di una fredda luce che non creava ombre.
Mi voltai e vidi il Creatore dai lineamenti affilati che io chiamavo Ermes. Come sempre, era vestito di un’uniforme di metallo argenteo, dal collo agli stivali. Abbassò una volta il mento in segno di saluto.
Senza preamboli, chiese: — L’hai già trovato?
— No — mentii, sperando che non potesse leggere nella mia mente.
Inarcò un sopracciglio. — Davvero? Con tutto il tempo che sei stato in Egitto, non hai idea di dove si nasconda?
— Non l’ho visto. Non so dove sia.
Con un leggero sorriso, Ermes disse: — Allora te lo dirò io. Guarda dentro la grande piramide. I nostri sensori rivelano un consumo di potenza concentrato in quella struttura. Ne avrà fatto la sua fortezza.
— Oppure — controbattei — ve lo sta facendo credere, mentre in realtà è da qualche altra parte o in qualche altro tempo.
Gli occhi di Ermes si strinsero. — Sì… è abbastanza intelligente da tenderci un tranello. Per questo è vitale che tu entri nella piramide e controlli se è davvero lì.
— Sto tentando di farlo.
— E?
— Sto tentando — ripetei. — Ci sono delle complicazioni.
— Orion — disse come a sottolineare la sua pazienza verso di me — non ci resta molto tempo. Dobbiamo trovarlo prima che faccia a pezzi l’intero continuum. È diventato pazzo ed è capace di distruggerci tutti.
“E allora?” pensai. — Forse gli universi starebbero molto meglio con tutti noi fuori dai piedi.
— Non capisci? — insistette Ermes. — Il tempo stringe! È questione di giorni!
— Sto facendo del mio meglio — risposi. — Ho cercato di entrare nella grande piramide, ma non ha funzionato. Ora devo andarci fisicamente, e per farlo ho bisogno della cooperazione del re, o magari di quella del sommo sacerdote di Amon.
Ermes fece un profondo sospiro di impazienza. — Fai quello che devi, Orion, ma per amore del continuum fallo in fretta!
Io annuii, e mi ritrovai a strizzare gli occhi alle prime luci dell’alba nel cielo nuvoloso della spiaggia egiziana.
Intorno a me c’era una dozzina di uomini armati, e uno di loro mi stava premendo l’impugnatura della lancia tra le costole.
— In piedi, Orion. Il mio signore Menelao vuole arrostire la tua carcassa per colazione.
Mi alzai. Mi afferrarono per le braccia e mi tennero saldamente, facendomi marciare verso la tenda del re. Non ebbi nessuna possibilità di prendere la spada, che rimase sulla mia coperta. Ma il pugnale legato alla coscia era ancora lì, sotto il gonnellino.
Menelao camminava su e giù come un leone in gabbia, quando le guardie mi portarono davanti a lui. Molti dei suoi nobili passeggiavano irrequieti davanti alla tenda, le spade al fianco, anche se non indossavano l’armatura. Menelao indossava una vecchia tunica, e aveva un mantello rosso sangue sulle spalle. Fremeva di rabbia tanto da far tremare la barba scura.
— Sei tu! — gridò quando le guardie mi portarono da lui. — Accendete i fuochi! Lo arrostirò centimetro per centimetro!
I nobili, tutti più giovani di Menelao, notai, sembravano quasi impauriti dall’ira del loro re.
— Cosa state aspettando — ringhiò. — Questo è l’uomo che ha rapito mia moglie! Pagherà il suo delitto con la più lenta agonia di morte che nessuno abbia mai patito!
— Tua moglie sta bene ed è al sicuro nella capitale egiziana — dissi io. — Se vorrai ascoltarmi per un…
Furente, fece un passo verso di me e mi colpì con un manrovescio alla bocca.
La mia collera esplose. Con una scrollata di spalle mi liberai degli uomini che mi immobilizzavano le braccia, poi li colpii alla cintura con i gomiti. Caddero boccheggiando.
Prima che avessero toccato terra, avevo tirato fuori il pugnale e, afferrando lo sconcertato Menelao per i capelli, glielo puntai alla gola.
— Un gesto da uno qualunque di voi — sibilai — e il vostro re morirà.
Si immobilizzarono tutti; i nobili, alcuni con le mani già sull’elsa della spada; le guardie, con gli occhi spalancati e la bocca aperta.
— Ora, nobile Menelao — dissi forte abbastanza che tutti potessero sentire, anche se la mia bocca era vicina al suo orecchio — discuteremo dei nostri contrasti da uomini o ci affronteremo l’un l’altro da nemici in un duello leale. Non sono un thes o uno schiavo, per essere legato e torturato per il tuo piacere. Ero un guerriero della Casa di Itaca, e ora sono il comandante di un esercito egiziano, un esercito mandato qui per distruggerti.
— Tu menti! — mugghiò Menelao dimenandosi nella mia presa. — Gli Egiziani ci hanno accolto sui loro lidi. Stanno custodendo mia moglie per me, e mi hanno invitato a navigare verso la loro capitale per reclamarla.
— Il primo ministro del re egiziano ha architettato una graziosa trappola per te e per tutti i signori achei che arrivano in questa terra — insistetti. — Ed Elena è l’esca.
— Bugie — disse Menelao. Ma mi accorsi di aver catturato l’attenzione degli altri nobili.
Allentai la presa su di lui e gettai il pugnale sulla sabbia ai suoi piedi.
— Lascia che gli dèi dimostrino chi di noi ha ragione — lo sfidai. — Scegli il tuo guerriero migliore e mettilo a confronto con me. Se mi ucciderà, significherà che sto mentendo. Se avrò la meglio io, mi farai la grazia di ascoltare quello che ho da dire, perché quello sarà stato il volere degli dèi.
Una rabbia omicida bruciava ancora negli occhi di Menelao, ma i nobili gli si strinsero intorno ansiosi.
— Perché no?
— Lascia che decidano gli dèi!
— Non hai niente da perdere, mio signore.
Fremente di rabbia, Menelao gridò: — Niente da perdere? Non capite che questo traditore, questo rapitore, sta semplicemente cercando di procurarsi una morte rapida e pulita invece dell’agonia che merita?
— Mio signore Menelao — gridai in risposta. — Sulla pianura di Ilio ti ho pregato di intercedere in favore del cantastorie Polete contro l’ira di tuo fratello. Tu hai rifiutato, e ora il vecchio è cieco. Adesso tutto è cambiato. Non sto pregando, io pretendo da te quello che mi devi: un combattimento leale. Non qualche giovane campione che affretti scioccamente la sua morte. Voglio combattere contro di te, potente guerriero. Possiamo sistemare i nostri contrasti con le lance e le spade.
L’avevo in pugno. Si allontanò di un passo ricordando le mie prodezze a Troia. Ma non aveva modo per evitare di affrontarmi; aveva detto a tutti che voleva uccidermi. Ora doveva farlo, e da solo, o permettere che i suoi seguaci lo considerassero un codardo.
L’intero accampamento formò un cerchio sbilenco intorno a noi, mentre i servi di Menelao lo aiutavano ad armarsi. Avremmo combattuto a piedi. Una delle guardie mi portò la mia spada; me la misi a tracolla e ne sentii il peso rassicurante sul fianco. Tre nobili, malvolentieri, mi fecero scegliere tra numerose lance. Ne presi una che era più corta ma più pesante delle altre.
Menelao emerse da un capannello di servi e di nobili, coperto di bronzo dalla testa ai piedi, con uno scudo enorme a figura intera. Nella mano destra reggeva un’unica lunga lancia, ma notai che i suoi uomini ne avevano deposto a terra numerose altre, a qualche passo dietro di lui.
Io non avevo né scudo né armatura. Non li volli. Speravo di avere la meglio su Menelao senza doverlo uccidere, per dimostrare a lui e agli altri Achei che gli dèi erano tanto dalla mia parte che nessun uomo mi si sarebbe potuto opporre. Per riuscirci, dovevo evitare di rimanere infilzato dalla lancia di Menelao, naturalmente.
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