— Non mi sono annoiato.
Scuotendo cautamente il capo in modo incerto come per verificarne la saldezza disse: — Il riposo sembra avermi fatto bene. Mi sento ristorato.
Io ero contento. Nefertu era troppo onesto per portare il peso dei piani di Nekoptah senza un amico con cui condividere il problema.
Ma sembrava ancora leggermente sconcertato quando se ne andò. Gli chiesi di incontrarci la mattina dopo a colazione, in modo che potessi raccontargli della serata con il re.
La cena con il re d’Egitto, il sovrano più potente del mondo, il faraone che aveva cacciato gli Israeliti dal suo Paese. Una serata inquietante.
Elena era tremendamente eccitata all’idea dell’incontro. Passò l’intero pomeriggio circondata da serve che le fecero il bagno, la profumarono, le legarono i capelli in cascate di riccioli d’oro, le truccarono il bel viso con khol per gli occhi e rossetto per le guance e le labbra. Si abbigliò con la sua gonna pieghettata più fine, decorata di fili d’oro e tintinnanti nappine d’argento, si ornò di collane, bracciali e anelli che sfolgoravano alla luce delle lampade, mentre gli ultimi raggi del sole morivano nel cielo violetto.
Io indossai un nuovo gonnellino di pelle, regalo di Nefertu, e una fresca camicia di lino bianco, dono anch’essa dell’egiziano.
E mi allacciai il pugnale alla coscia, come una cosa scontata.
Elena aprì la porta che metteva in comunicazione le nostre stanze e rimase sulla soglia, fremente d’impazienza.
— Sono presentabile per il re? — chiese.
Io sorrisi e risposi sinceramente: — La domanda giusta sarebbe: “Il re d’Egitto è presentabile per l’incontro con la donna più bella del mondo?”.
Anche lei mi sorrise. Mi avvicinai, ma lei mi tenne a distanza con le braccia. — Non mi toccare! Mi sporcherò, o sgualcirò il vestito!
Io gettai indietro la testa e risi. Doveva essere la mia ultima risata per molto tempo.
Una scorta di una buona dozzina di guardie in armature d’oro ci condussero attraverso stretti corridoi e rampe di scale che non sembravano avere alcuna logica, tranne quella di confondere chi non conosceva la strada a memoria. Ripensando al mio incontro con Nekoptah e a quello che Nefertu mi aveva suo malgrado rivelato, mi resi conto che Elena ed io eravamo in realtà prigionieri del sommo sacerdote, più che ospiti del re.
Invece di una magnifica sala da pranzo affollata di ospiti allegri e di artisti intenti a intrattenerli con musica e danze mentre i servi portavano vassoi colmi di cibo e versavano vino da brocche d’oro, la cena con Merenptah si svolse tranquilla, in una piccola sala senza finestre.
Elena ed io fummo condotti dalle guardie davanti a una semplice porta di legno. Un servo l’aprì e ci introdusse in una stanza piuttosto piccola. Eravamo soli, davanti a un tavolo apparecchiato per quattro. Dal soffitto pendeva una lampadario di rame. Contro il muro, erano allineati tavoli di servizio.
Il servo ci fece un inchino e uscì da un’altra porta.
Ancora una volta sentii i capelli rizzarmisi sulla nuca. Eravamo osservati, lo sapevo. C’erano degli affreschi sul muro, scene di caccia, con il sovrano dipinto più grande di tutti gli altri, che colpiva con la lancia leopardi e leoni. Vidi il luccichio di occhi neri come il carbone dove avrebbero dovuto esserci quelli fulvi di un leone.
— A Sparta, l’ospitalità è così misera che un re lascerebbe i suoi ospiti soli in una stanza, senza cibo, né bevande, né intrattenimenti? — chiesi a Elena.
— No — rispose a voce bassa. Sembrava enormemente contrariata.
La porta che dava sul corridoio si aprì e il grasso Nekoptah entrò camminando come una papera, in una veste bianca lunga sino a terra che sembrava una tenda. Era coperto di gioielli quasi quanto Elena, e il trucco sul suo viso era molto più pesante. Avevo informato Elena del suo aspetto e di ciò che pensavo di lui. Il sacerdote era al corrente di ogni mia parola, potevo capirlo dall’espressione malevola con cui mi guardò.
— Perdonate l’informalità di questa serata — ci disse. — In seguito, organizzeremo un’adeguata cena ufficiale per la regina di Sparta. Stasera il re desidera semplicemente conoscervi, e darvi il benvenuto nel Regno delle Due Terre.
Prese la mano di Elena e se la portò alle labbra. Lei si trattenne dal ritirarla, ma solo a fatica.
Nekoptah batté le mani, e immediatamente arrivò un servo con un vassoio di coppe da vino.
Avevamo appena assaggiato il vino, un rosso dolciastro che Nekoptah diceva fosse importato da Creta, quando la porta del corridoio si aprì di nuovo e una guardia annunciò: — Sua Maestà Reale, re delle Due Terre, beneamato di Ptah, Guardiano del Popolo, Figlio del Nilo.
Invece del re, però, entrarono sei sacerdoti in vesti grigie, con turiboli di rame che riempirono la stanza d’incenso fumoso e pungente. Salmodiavano in una lingua antica e si esibirono in una mini-processione intorno al tavolo per tre volte, lodando Ptah e il suo servo sulla terra, Merenptah.
Quando uscirono, fu la volta di sei guardie dall’armatura d’oro, che si misero tre a tre lungo la parete ai lati della porta e si congelarono in un’immobilità immediata. Ognuno aveva una lancia che toccava quasi il soffitto. Poi arrivarono due arpisti, e poi quattro giovani donne che reggevano colorati ventilabri di piume di pavone. In mezzo a loro comparve finalmente il re d’Egitto, Merenptah.
Era un uomo di mezza età, con i capelli ancora scuri. Di corporatura esile e piccolo di statura, camminava leggermente piegato in avanti, come curvo per gli anni o le preoccupazioni. O per il dolore. Indossava una veste bianca senza maniche, con ricami d’oro all’orlo. La sua pelle era molto più chiara di quella di qualunque egiziano avessi incontrato. Diversamente dal suo primo ministro, il re non portava alcun ornamento, tranne un piccolo medaglione d’oro con il simbolo di Ptah appeso a una sottile catena intorno al collo, e bracciali di rame ai polsi.
Furono i suoi occhi a preoccuparmi. Sembravano annebbiati, vacui, quasi ciechi. Come se i suoi pensieri fossero ripiegati quasi completamente dentro di lui. Come se il mondo circostante fosse una cosa senza valore, un fastidio, un impedimento a ciò che considerava davvero importante.
Gettai uno sguardo a Elena, in piedi vicino a me. L’aveva notato anche lei.
I due arpisti e le fanciulle con i ventilabri si inchinarono profondamente al re e lasciarono la stanza. Una delle guardie rimaste nel corridoio chiuse la porta e rimanemmo soli, a parte i sei soldati allineati contro il muro come statue. Sapevo che mi sarei seduto dando loro le spalle, e questo non mi piaceva.
Le presentazioni furono educate ma frettolose. Elena fece una graziosa riverenza al sovrano, che però si mostrò completamente indifferente alla sua bellezza, e persino alla sua presenza. Io mi inchinai e lui borbottò qualcosa circa i barbari del mare.
Sedemmo al tavolo e alcuni schiavi ci servirono una minestra fredda e varie portate di pesce. Il re non mangiò quasi nulla. Nekoptah mangiò per tutti e quattro.
La conversazione fu discontinua. Nekoptah fu quello che parlò di più, soprattutto su come il culto di Ptah trovasse fiera resistenza da parte di pericolosi fanatici che stavano tentando di reinstaurare l’eresia di Akhenaten. — Specialmente a Menefer — si lamentò il sommo sacerdote trangugiando un grosso boccone. — Lì i sacerdoti stanno riportando in auge il culto di Aten.
— Pensavo che venerassero Amon — dissi — piuttosto che Aten.
— Sì — intervenne Elena. — Abbiamo visto l’Occhio di Amon sulla grande piramide.
Nekoptah corrugò la fronte. — Dicono di riverire Amon, ma segretamente è l’idea di Akhenaten che cercano di reinstaurare. Se non verranno fermati, e presto, getteranno le Due Terre nello scompiglio ancora una volta.
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