Ben Bova - La vendetta di Orion

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La vendetta di Orion: краткое содержание, описание и аннотация

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Ormai non ci sono dubbi: sotto le spoglie umane di John O’Ryan si nasconde una figura mitica, il leggendario cacciatore Orion. A crearlo è stato l’essere di un lontanissimo futuro che ha scelto di farsi chiamare Ormazd, e che con il suo aiuto intende condurre nel tempo e nello spazio una guerra spietata contro il più acerrimo nemico dell’umanità, Ahriman. Il primo scontro (in Orion, Urania 1038) sembra essersi concluso vittoriosamente, ma in realtà l’intervento di Orion ha causato una frattura nel continuum spazio-temporale, concedendo ad Ahriman e ai suoi neandertaliani un cosmo tutto per loro. Ormazd non ha affatto gradito la cosa e ha deciso di punire Orion strappandogli ciò che ha di più caro, per costringere il cacciatore a riprendere la sua battuta. Questa volta lo scenario-sarà il passato e la posta in gioco il salvataggio di Troia… perché Ormazd è deciso a cambiare addirittura la trama del tempo pur di distruggere definitivamente il suo nemico.

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Poi, Raseth si voltò improvvisamente e zoppicò di nuovo verso di noi.

— Dove hanno combattuto? — mi chiese.

Io descrissi brevemente gli assedi di Troia e di Gerico.

Raseth annuì con aria da intenditore. Non sorrise. Non era il tipo di comandante che sorride in presenza delle truppe.

— Genieri, eh? Noi non usiamo spesso la tecnica dell’assedio disse. — Ma va bene. Ci serviranno. L’esercito del re dà loro il benvenuto.

Così ebbe fine la parte più facile della giornata. Dalle caserme, Nefertu mi condusse attraverso un cortile largo e vuoto. Il sole del mattino cominciava a farsi caldo sulla mia schiena e creava ombre nette sul liscio terreno polveroso. Lungo il muro posteriore del cortile vidi un recinto per il bestiame e qualche dromedario dalla schiena gibbosa che camminava pigramente, agitando la coda per scacciare le mosche. Arrivava un po’ di brezza dal fiume, però, e nell’aria sentivo il profumo dei gelsomini e degli alberi di limone.

— Gli uffici reali — disse Nefertu indicando un gruppo di costruzioni che avevo preso per templi. Notai che l’uomo era nervoso, teso, per la prima volta da tutte le lunghe settimane che lo conoscevo. — È lì che incontreremo Nekoptah.

Si incamminò per una lunga rampa leggermente in salita, fiancheggiata su entrambi i lati da due file di statue di Ramesses II, tutte più grandi del reale, ognuna uguale all’altra: un uomo dai muscoli potenti che avanzava a grandi passi, i pugni stretti lungo i fianchi, un sorriso sereno sul volto attraente. Nemmeno un difetto sul corpo o sul viso, perfettamente simmetrici, completamente equilibrati. Il granito rosa delle statue catturò il sole del mattino, assumendo quasi l’aspetto di carne viva.

Io mi sentivo come se un vero gigante mi stesse fissando. O un dio. Uno dei Creatori. Nonostante il tepore del sole, rabbrividii.

Alla fine della rampa voltammo a sinistra e oltrepassammo una fila di sfingi massicce: corpi accucciati di leoni con la testa di toro. Erano alte quanto me.

— Il leone è il simbolo del sole — spiegò Nefertu. — Il toro è il totem di Amon. Queste sfingi rappresentano l’armonia tra gli dèi.

In mezzo alle zampe anteriori di ciascuna sfinge, c’era una statua di… e chi, sennò? Almeno, quelle erano semplicemente a grandezza naturale.

— Non ci sono statue di Merenptah? — chiesi.

Nefertu annuì. — Oh, sì, certo. Ma lui venera suo padre come chiunque altro suddito dei Due Regni. Chi abbatterebbe le statue di Ramesses per sostituirle con le proprie? Nemmeno il re oserebbe.

Ci avvicinammo a un enorme portone, fiancheggiato da altre due statue colossali di Ramesses: seduto, questa volta, con in mano la verga che indicava la sua carica e la spiga di grano che simboleggiava la fertilità. Cominciai e chiedermi come ci si sentisse, a salire al trono dopo un simile monarca.

— Merenptah e Nekoptah — chiesi mentre entravamo, infine, nella fresca ombra del tempio — sono parenti di sangue?

Nefertu sorrise a denti stretti, in modo quasi acido, pensai. — Sì. Ed entrambi venerano Ptah come loro protettore e guida.

— Non Amon?

— Venerano Amon e tutti gli altri dèi, Orion. Ma Ptah è il loro dio particolare. Menefer era la città sacra di Ptah. Merenptah ha portato il suo culto qui, nella capitale. Nekoptah è il sommo sacerdote di Ptah.

— C’è una statua di Ptah che io possa vedere? Che aspetto ha?

— Lo vedrai molto presto. — Parlò in tono quasi adirato, come se la mia domanda lo avesse irritato o temesse qualcosa che io non capivo.

Stavamo percorrendo un lungo corridoio anch’esso fiancheggiato da enormi colonne, così alte che il soffitto sopra di noi si perdeva tra le ombre. Il pavimento era di marmo, le gigantesche colonne di granito, larghe quanto l’albero più poderoso. C’era una fila di guardie in luccicanti armature d’oro, a distanza di qualche metro l’una dall’altra, ma avevo l’impressione che fossero lì soltanto proforma. In quel tempio, non c’era stato bisogno di uomini armati per migliaia di anni. Quel corridoio enorme era stato progettato per far sentire piccolo qualsiasi uomo, per sopraffare i comuni mortali con la sua grandiosa immensità. Era una tattica usata dai potenti di tutte le epoche: utilizzare l’architettura per piegare le anime dei loro simili, per riempirli di stupore, e ammirazione, e timore di una grandezza capace di erigere opere così poderose.

Un paio di occhi fosforescenti mi fissavano dalla profondità delle ombre. Quasi risi. Un altro dei numerosi gatti del palazzo.

Superato il solenne corridoio, salimmo una scalinata di marmo nero. Poi prendemmo un altro corridoio, sui cui lati si allineavano piccole statue di vari dèi con la testa di animale: un falco, uno sciacallo, un leone, persino un formichiere. In fondo, in un’apposita nicchia, c’era una statua così gigantesca che arrivava praticamente al soffitto.

— Ecco Ptah — disse Nefertu in una specie di sussurro.

La statua incombeva su di noi, grande quasi quanto i colossi di Ramesses fuori dal tempio. Un lucernario, dal tetto, dirigeva un raggio di sole su tutta la lunghezza della candida scultura. Vidi il volto di un uomo con il corpo avvolto in bende come una mummia tranne che per le mani, libere, che stringevano un lungo bastone fittamente lavorato. Una papalina gli copriva la testa e una corta barba gli ornava il mento. L’espressione era impenetrabile, come quella del magro, sarcastico Ermes, l’ultima volta, quando avevo trasportato Giosuè nel mondo dei Creatori.

Nefertu si fermò ai piedi della statua gigantesca, dove l’incenso bruciava dentro due bracieri. Si inchinò tre volte, poi prese un pizzico di qualcosa da una scodella tra i due fuochi e la buttò tra le braci alla sua sinistra. Quella roba provocò un piccolo scoppio fiammeggiante e mandò una spirale di fumo bianco verso il lontano soffitto.

— Anche tu devi offrire un sacrificio, Orion — mi sussurrò.

Con il viso impassibile, mi avvicinai e gettai il mio pizzico nel braciere a destra. Fece un fumo nero. Voltandomi di nuovo verso Nefertu, vidi che i suoi occhi seguivano l’onda scura. Il suo viso era altrettanto scuro.

— Ho fatto qualcosa di sbagliato? — chiesi.

— No — rispose, gli occhi ancora fissi sulla spirale di fumo. — Ma a quanto pare, il sacro Ptah non ha del tutto gradito la tua offerta.

Io mi strinsi nelle spalle.

Mentre mi guidava lungo un altro corridoio ancora più stretto, piantonato da altre due guardie dall’armatura d’oro, e poi verso una massiccia porta d’ebano incassata in un profondo stipite di pietra, Nefertu sembrava ancor più nervoso, teso da un’ansia che non riusciva a nascondere. Era preoccupato per l’incontro con Nekoptah o per qualcosa che io avevo fatto? O che non avevo fatto?

C’era un’altra guardia sulla porta. L’aprì senza dire una parola per Nefertu.

Entrammo in una sala piuttosto grande. La luce del giorno penetrava da tre finestre sulla nostra destra. La stanza era assolutamente priva di decorazioni: le pareti di pietra erano nude come quelle della cella di una prigione. Anche il pavimento era nudo, e non piastrellato. In fondo, vicino all’unica altra porta, c’era un lungo tavolo ingombro di rotoli per scrivere, con due candelabri d’argento, le candele spente, alle estremità.

Dietro al tavolo sedeva un uomo incredibilmente grasso, dalla testa completamente rasata e l’enorme corpo sferico coperto di una veste grigia senza maniche che arrivava sino a terra. Le sue braccia, flaccide, lardose senza peli e rosa come la pelle di un porcellino, erano appoggiate sul lucido legno del tavolo. Ad ogni dito, compresi i pollici, gli scintillavano anelli di pietre preziose, alcuni così affondati nella carne da far pensare che stessero lì da anni. L’uomo aveva le guance talmente grandi che gli ricadevano sul petto e sulle spalle. Riuscivo a malapena a vedere gli occhi infossati nel volto grossolano, che ci studiavano mentre attraversavamo la stanza vuota per arrivare alla scrivania. Era anche truccato: gli occhi sottolineati con il khol e circondati di un’ombra verde sopra e sotto, le guance sfumate di belletto, le labbra rosso scuro.

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