Ben Bova - La vendetta di Orion

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La vendetta di Orion: краткое содержание, описание и аннотация

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Ormai non ci sono dubbi: sotto le spoglie umane di John O’Ryan si nasconde una figura mitica, il leggendario cacciatore Orion. A crearlo è stato l’essere di un lontanissimo futuro che ha scelto di farsi chiamare Ormazd, e che con il suo aiuto intende condurre nel tempo e nello spazio una guerra spietata contro il più acerrimo nemico dell’umanità, Ahriman. Il primo scontro (in Orion, Urania 1038) sembra essersi concluso vittoriosamente, ma in realtà l’intervento di Orion ha causato una frattura nel continuum spazio-temporale, concedendo ad Ahriman e ai suoi neandertaliani un cosmo tutto per loro. Ormazd non ha affatto gradito la cosa e ha deciso di punire Orion strappandogli ciò che ha di più caro, per costringere il cacciatore a riprendere la sua battuta. Questa volta lo scenario-sarà il passato e la posta in gioco il salvataggio di Troia… perché Ormazd è deciso a cambiare addirittura la trama del tempo pur di distruggere definitivamente il suo nemico.

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Passeggiammo per tutta la lunghezza del ponte della nave, e ci trovammo di fronte al porto.

— E questo molo poderoso? L’hanno costruito gli dèi? È molto più lungo delle mura di Troia. E l’obelisco all’estremità? I templi e le ville che abbiamo visto oggi? Le hanno costruite gli dèi?

Lei rise piano. — Orion, non essere sciocco. Certo che no; gli dèi non si abbassano a costruire cose così terrene.

— Allora, se i mortali possono aver costruito strutture così gigantesche, perché non possono aver costruito le piramidi? Non hanno niente di tanto misterioso: sono solo più grandi e richiedono più manodopera e più tempo.

Lei decise di esorcizzare la mia bestemmia canzonandomi. — Per un uomo che dichiara di servire gli dèi, Orion, dimostri davvero poco rispetto per gli immortali.

Dovetti convenirne. Nutrivo scarso rispetto per coloro che avevano creato quel mondo e la sua gente, e che si sentivano in diritto di servirsi di noi, torturandoci e uccidendoci, qualunque fossero gli scopi che li muovevano.

Elena percepì il mio malumore e cercò di calmarmi facendo l’amore. Per un po’ dimenticai tutto e permisi al mio corpo di cancellare qualsiasi altra realtà. Ma quando, al culmine della passione, io chiusi gli occhi, mi si parò davanti il sorriso di Atena, bello al di là della mortalità umana, e l’incantesimo si spezzò.

Anche l’umore scherzoso di Elena era cambiato. Sussurrandomi nell’orecchio, disse: — Non sfidare gli dèi, Orion. Per favore, non metterti contro di loro. Non può venirne nulla di buono.

Io non risposi. Non potevo dirle niente che non fosse una bugia o le desse motivo di preoccupazione.

Ci addormentammo abbracciati. Ma presto io mi svegliai al leggero dondolio della nave e al rumore di risate soffocate. Lukka e i suoi uomini stavano tornando. Doveva essere quasi l’alba.

Chiudendo gli occhi, mi concentrai sulla grande piramide di Khufu. Sintonizzai ogni particella del mio essere su quel mucchio di pietre e sulla camera funebre che conteneva. La vedevo chiaramente, che risplendeva contro la notte, stagliandosi nel cielo stellato, brillante di una luce che nessun occhio mortale poteva vedere.

La grande piramide pulsava di energie interne, luccicante, invitante. Improvvisamente, dalla sua punta, un vivido raggio blu saettò verso il cielo, un dardo scintillante di energia che si alzava verso lo zenit della volta notturna.

Ero in piedi davanti alla piramide. Il mio corpo fisico era lì, lo sapevo. Eppure le guardie ai margini della grande piazza antistante non mi videro. Non percepivano la luce che irradiava dalla grande costruzione né lo strale incredibilmente azzurro che prorompeva dalla sua estremità.

E io non potevo avvicinarmi. Come se un muro impenetrabile mi si parasse davanti, non potevo fare un solo passo verso la piramide. Rimasi fuori, nell’aria notturna, finché il sudore non cominciò a colarmi sul viso e sul petto, e poi sulle costole e sulle gambe.

Non riuscii a entrare nella piramide. Il Radioso vi si era sigillato dentro, compresi, e non mi avrebbe permesso di raggiungerlo. Stava proteggendosi da me o dagli altri Creatori?

Non faceva differenza, per quanto mi riguardava. A meno che non fossi riuscito a entrare nella piramide, non potevo in alcun modo costringerlo a resuscitare Atena. Gridai forte nella notte, urlando alle stelle la mia rabbia e la mia frustrazione, e caddi sulle pietre che lastricavano la grande piazza davanti alla tomba di Khufu.

36

Il viso di Elena era bianco per lo shock.

— Cosa c’è, Orion? Cos’hai?

Ero nella nostra cuccetta a bordo della nave, madido di sudore, aggrovigliato nella leggera coperta che ci eravamo buttati addosso.

Dovetti inghiottire due volte prima di ritrovare la voce. — Un sogno — dissi rauco. — Niente…

— Hai visto di nuovo gli dèi — disse Elena.

Sentii un rumore di piedi nudi che correvano e poi qualcuno batté alla porta. — Mio signore Orion! — La voce di Lukka.

— Va tutto bene — gridai. — Solo un brutto sogno.

Ancora con il viso del colore della cenere, Elena disse: — Ti distruggeranno, Orion. Se continui con questo folle assalto contro di loro, ti schiacceranno completamente!

— No — risposi. — Non fino a quando non avrò avuto la mia vendetta. Dopo, potranno farmi quello che vogliono. Ma prima la vendicherò.

Elena mi voltò le spalle, il volto segnato d’ira e rammarico.

Mi svegliai completamente instupidito, quella mattina. Se Nefertu si chiedeva cosa mi aveva fatto gridare, fu troppo educato per domandarlo. L’equipaggio mollò gli ormeggi e riprendemmo il nostro viaggio verso la capitale.

Passai tutta la giornata a fissare la grande piramide, con il grande Occhio di Amon che mi fissava di rimando. Il Radioso ne aveva fatto la sua fortezza, il suo rifugio, mi dissi. Dovevo riuscire a entrare, in qualche modo. O morire nel tentativo.

Navigammo sul Nilo per settimane, lunghi giorni vuoti di sole e di fiume, lunghe notti di tentativi frustranti per raggiungere il Radioso o qualcuno degli altri Creatori. Era come se avessero lasciato la Terra e fossero andati da qualche altra parte. O forse si stavano tutti tenendo nascosti. Ma da cosa?

Elena mi studiava continuamente. Parlava raramente degli dèi, solo qualche volta, di notte, quando stavamo per addormentarci. Mi chiedevo fino a che punto credesse a quello che le avevo detto. Forse non lo sapeva nemmeno lei.

Ogni giorno era uguale all’altro, tranne che per il mutare del panorama. Un giorno oltrepassammo quella che sembrava una città in rovina: costruzioni smozzicate, monumenti ridotti in macerie.

— C’è stata una guerra, qui? — chiesi a Nefertu.

Per la prima volta lo vidi irritato, quasi adirato. — Questa era la città di un re — disse ermeticamente.

— Un re? Vuoi dire che questa, una volta, era la capitale?

— Praticamente sì.

Dovetti tirargli fuori la storia, parola per parola. Era chiaramente penoso per lui, ma così affascinante che non potei resistere dal continuare ad assillarlo finché non ebbi l’intero racconto. La città si chiamava Akhetaten, ed era stata costruita dal re Akhenaten più di cento anni prima. Per Nefertu, Akhenaten era un re malvagio, un eretico che aveva rinnegato gli dèi dell’Egitto tranne uno: Aten, un dio del sole.

— Ha causato grandi miserie in questa terra, e la guerra civile. Quando finalmente morì, la città fu abbandonata, e i suoi successori hanno abbattuto i suoi monumenti e distrutto i suoi templi. La sua memoria è una vergogna per noi.

“Sì” pensai. Riuscivo a capire quanto quel ricordo mettesse Nefertu a disagio. Eppure mi chiesi se l’eresia di Akhenaten non fosse stata uno dei piani del Radioso andati storti. Forse ero passato di lì, in una delle vite che non riuscivo a ricordare, e forse un domani vi sarei tornato, per eseguire chissà quale volontà dei Creatori.

“No” mi dissi. “I miei giorni come loro servitore finiranno una volta che avrò riportato Atena alla vita”. O almeno, così speravo.

Continuammo a navigare, e vedemmo coccodrilli scivolare lungo le rive piene di canne ed enormi ippopotami tuffarsi e barrire l’uno all’altro, con le grandissime bocche rosa e i denti tozzi ridicoli e terrificanti allo stesso tempo.

— Non è un buon posto per nuotare — osservò Lukka.

— No, a meno di non voler finire come pasto di mezzogiorno — fui d’accordo.

Finalmente ci avvicinammo a Wast, la potente capitale del Regno delle Due Terre. Lungo la riva orientale i canneti lasciarono il posto ai campi coltivati, e poi a basse costruzioni di mattoni secchi intonacati. Dall’altra parte del fiume vedemmo altre tombe seminascoste dai dirupi.

Mentre continuavamo a navigare, le costruzioni divennero più vaste, più grandiose. I mattoni secchi lasciarono il posto alla pietra decorata, le fattorie a belle ville, dalle pareti affrescate. Alte palme da dattero e fiorenti agrumeti ondeggiavano nel vento caldo. In lontananza, cominciammo a scorgere templi ed edifici massicci, grandi obelischi e una quantità di statue gigantesche di un uomo in piedi, con un corpo magnifico, i pugni stretti lungo i fianchi, il volto atteggiato a un sorriso sereno.

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