Elena adottò il gatto della nave, un animale completamente bianco che andava a zonzo sul ponte con un’aria signorile e permetteva agli uomini che gli piacevano particolarmente di offrirgli il cibo. Gli Egiziani consideravano i gatti come mini-dèi; Elena era deliziata dal fatto che le permettesse di coccolarlo, ogni tanto.
Poi, una mattina, mi svegliai proprio al sorgere del sole. In lontananza vidi un bagliore, però a occidente, e per un istante il mio cuore si fermò. Aspettai che il bagliore si diffondesse e mi inghiottisse, per portarmi faccia a faccia con il Radioso ancora una volta.
Ma non accadde. Rimase semplicemente all’orizzonte come un faro lontano. Quale fosse il suo significato, non seppi dirlo. Non ero stato convocato dai Creatori sin da quando avevamo lasciato le rovine di Gerico. Non avevo più visto il loro mondo. Sapevo solo che li avrei incontrati di nuovo in Egitto e che avrei distrutto il Radioso, o lui avrebbe distrutto me. Mi bastava aspettare finché quel momento non fosse arrivato.
Ma cos’era quel fulgore all’orizzonte?
— Lo vedi.
Mi voltai, e Nefertu era in piedi vicino a me.
— Cos’è? — chiesi.
Scosse la testa lentamente. — Le parole non possono spiegarlo. Dovrai vederlo da te.
Nelle prime ore del mattino, la nostra barca veleggiò in direzione di quella luce. Arrivammo alla città di Menefer, una distesa di poderose costruzioni di pietra che torreggiavano sulla riva orientale del Nilo: templi e obelischi che si slanciavano nel cielo senza nubi, banchine che facevano sembrare piccola qualunque cosa avessimo visto prima, lunghi viali di colonne fiancheggiati da palme ed eucalipti, palazzi con incredibili giardini e persino boschetti sui tetti.
Ma tutto questo lo notammo a malapena. Poco alla volta, tutti gli occhi della nave si volsero a occidente e all’indescrivibile visione.
— La grande piramide di Khufu — disse Nefertu in un sussurro. Anche lui ne era intimorito. — È lì da più di mille anni. Ci resterà sino alla fine dei tempi.
Era un’enorme piramide di un bianco abbagliante, così enorme e massiccia da essere indescrivibile. C’erano altre piramidi lì vicino, e una grande pietra intagliata a forma di sfinge da un lato, come a guardia della via d’accesso. Templi circondati di colonne fiancheggiavano la strada che portava alla grande piramide; sembravano case di bambola vicino a quella poderosa immensità.
La piramide era interamente rivestita di luccicante pietra bianca, lucidata così perfettamente che potevo quasi vedervi riflessa la sfinge. La cima era grande abbastanza da contenere il palazzo di Priamo, ma era la parte terminale di quella maestosa struttura che risplendeva alla luce del sole. Era di elettro, una lega d’oro e argento, mi disse Nefertu. Era stata quella a catturare la luce del sole appena sorto.
Era lì che dovevo incontrare il Radioso. Era lì che dovevo riportare Atena alla vita. Ma la nostra nave non si fermò.
Mentre guardavo, la candida luccicante superficie della piramide cominciò a cambiare lentamente. Apparve un grande occhio, nero contro la pietra bianca, e guardò direttamente verso di noi. Dalla nave si levò un gemito. Molti Ittiti caddero in ginocchio. Io sentii rizzarsi i peli delle braccia.
Nefertu mi toccò la spalla: era la prima volta che mi metteva una mano addosso.
— Non spaventarti — disse. — È un effetto ottico causato dal sole e da certe piccole pietre sistemate lungo la facciata della piramide per creare un effetto d’ombra quando il sole è nella giusta angolatura. È come una meridiana, solo che mostra l’Occhio di Amon.
Io distolsi lo sguardo e fissai Nefertu. Il suo viso era serio, quasi solenne. Non rideva del timore, della paura dei suoi barbari visitatori.
— Come già ti ho detto — continuò scusandosi — non ci sono parole che possano spiegare la grande piramide, quando la si vede per la prima volta.
Io annuii gravemente. Mi era difficile parlare.
Il grande Occhio di Amon scomparve rapidamente come si era aperto, verso mezzogiorno. Al suo posto comparve la figura di un falco. Passammo l’intera giornata a guardare la piramide; nessuno di noi riusciva a staccarne gli occhi.
— È la tomba di Khufu, uno dei nostri re più grandi, vissuto più di mille anni fa — spiegò Nefertu. Contiene la camera mortuaria del re, e altre stanze per i suoi tesori e servitori. In passato, quando il re moriva i servi della sua Casa venivano murati nella piramide insieme con il suo corpo imbalsamato, in modo da poterlo servire adeguatamente quando fosse risorto.
— I servi venivano rinchiusi vivi? — domandai.
Lui confermò. — Vivi. Lo facevano volontariamente, ci hanno detto, spinti dal grande amore per il loro sovrano, e sapendo che sarebbero stati con lui nella vita ultraterrena.
L’espressione del suo viso magro era difficile da decifrare. Credeva a quelle storie o stava solo riportando la versione ufficiale?
— Mi piacerebbe vedere la grande piramide — dissi.
— L’hai appena vista.
— Voglio dire da vicino. Forse è possibile entrare…
— No! — Era la parola più brusca che Nefertu mi avesse mai detto. — La piramide è una tomba consacrata. Le guardie la proteggono giorno e notte da quelli che vogliono profanarla. Nessuno può entrare nella tomba senza un permesso speciale del re in persona.
Io chinai la testa in segno di tacita accettazione, ma dentro di me pensavo: “Non aspetterò il permesso del re. Entrerò nella tomba e troverò il Radioso che mi aspetta lì. E lo farò stanotte”.
Finalmente la nostra nave attraccò a un massiccio molo di pietra in periferia. Come al solito, Lukka e i suoi uomini andarono in città con gli uomini di Nefertu. Ma notai che c’erano molte guardie sul molo che certamente avrebbero bloccato il passaggio finché Nefertu o qualche altro funzionario non l’avessero permesso.
Elena, Nefertu ed io cenammo insieme a bordo della nave: pesce, agnello e buon vino, il tutto fatto arrivare dalla città.
Nefertu ci raccontò molte cose sulla grande piramide e su Menefer, che un tempo era stata la capitale dell’Egitto e alla quale lui si riferiva sempre come al Regno delle Due Terre. Originariamente chiamata Città del Muro Bianco, quando era diventata la capitale del regno, la città aveva assunto il nome di Ankhtawy, che significa “quella che tiene unite le Due Terre”. Da quando la capitale era stata trasferita a sud, a Wast, il suo nome era stato nuovamente cambiato in Menefer, che significava “Bellezza Armoniosa”.
Per Elena, che parlava l’acheo, il nome della città era Memfi.
Io ascoltavo impaziente la loro conversazione durante la lunga cena. Finalmente terminammo, e Nefertu ci augurò la buona notte. Elena ed io passammo quasi un’altra ora a riempirci gli occhi della città e della grande piramide al di là del fiume.
La massiccia tomba di Khufu sembrava brillare di luce propria anche molto tempo dopo che il sole era calato. Era come se una misteriosa forma di energia venisse generata all’interno di quelle pietre titaniche e irradiasse all’esterno, nella notte.
— Deve essere stata costruita dagli dèi — disse Elena, sussurrando nella notte tiepida premendo il suo corpo contro il mio. — Esseri mortali non avrebbero mai potuto costruire qualcosa di così enorme.
Le misi un braccio intorno alla vita. — Nefertu dice che l’hanno costruita gli uomini. Migliaia di uomini, che lavoravano come formiche.
— Solo gli dèi o i titani potrebbero costruire una cosa simile, insistette Elena.
Pensai ai Troiani e agli Achei che credevano che le mura di Troia fossero state costruite da Apollo e Poseidone. Quel ricordo, e l’ostinata insistenza di Elena, mi misero un po’ d’amaro in bocca. — “Perché la gente vuole credere di non essere capace di grandi azioni? Perché deve attribuire la propria grandezza agli dèi, che in realtà non sono più saggi o più gentili di qualunque pastore vagabondo?”
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