Ben Bova - La vendetta di Orion

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La vendetta di Orion: краткое содержание, описание и аннотация

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Ormai non ci sono dubbi: sotto le spoglie umane di John O’Ryan si nasconde una figura mitica, il leggendario cacciatore Orion. A crearlo è stato l’essere di un lontanissimo futuro che ha scelto di farsi chiamare Ormazd, e che con il suo aiuto intende condurre nel tempo e nello spazio una guerra spietata contro il più acerrimo nemico dell’umanità, Ahriman. Il primo scontro (in Orion, Urania 1038) sembra essersi concluso vittoriosamente, ma in realtà l’intervento di Orion ha causato una frattura nel continuum spazio-temporale, concedendo ad Ahriman e ai suoi neandertaliani un cosmo tutto per loro. Ormazd non ha affatto gradito la cosa e ha deciso di punire Orion strappandogli ciò che ha di più caro, per costringere il cacciatore a riprendere la sua battuta. Questa volta lo scenario-sarà il passato e la posta in gioco il salvataggio di Troia… perché Ormazd è deciso a cambiare addirittura la trama del tempo pur di distruggere definitivamente il suo nemico.

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Le ginocchia di Giosuè cedettero e io dovetti sostenerlo. Dopo aver gettato uno sguardo panoramico per registrare nella mente ogni dettaglio nel modo più preciso possibile, chiusi di nuovo gli occhi e feci in modo di tornare da dove eravamo venuti.

Aprii gli occhi nel buio della tenda di Giosuè. Lui era abbandonato nelle mie braccia, e tremava di un fremito incontrollabile.

— Quando arriverà l’alba — dissi — io e la mia gente lasceremo il vostro accampamento. Ti abbiamo servito fedelmente, e mi aspetto che tu tenga fede alla tua parte dell’accordo. Se cercherai di ostacolarci in qualunque modo, tornerò da te e ti manderò di nuovo in quella terra dorata; ma ti ci abbandonerò per sempre.

Lo lasciai sprofondare nuovamente nei suoi cuscini e uscii dalla sua tenda. Quella fu l’ultima volta che lo vidi.

PARTE TERZA

Egitto

34

Elena aveva ragione: l’Egitto era la civiltà. Persino Lukka rimase impressionato.

— Le città non hanno mura intorno — si meravigliò. Avevamo attraversato il roccioso deserto del Sinai, aprendoci la strada attraverso passi di montagna e sabbie roventi sotto il sole inesorabile. Le tribù nomadi del Sinai erano diffidenti nei confronti degli stranieri, ma le leggi di ospitalità erano più forti delle loro paure. Non eravamo esattamente i benvenuti tra i pastori che incontravamo, ma eravamo tollerati, nutriti, dissetati e ricevevamo un augurio sincero di buon viaggio, quando lasciavamo le loro tende.

Io ricambiavo sempre con qualche piccolo dono preso dai nostri tesori: un cammeo d’ambra di Troia, una coppa di pietra sottile come una foglia di Gerico. I nomadi accettavano quei gingilli con solennità; ne conoscevano il valore, ma soprattutto apprezzavano il fatto che noi capissimo gli obblighi dell’ospitalità.

Comunque, il caldo e l’aridità di quella terra perduta ci fecero pagare un caro prezzo. I buoi che tiravano i carri cedettero l’uno dopo l’altro, come anche molti dei nostri cavalli. Li rimpiazzammo con piccoli, testardi somari e cammelli infidi e maleodoranti, comprati dai nomadi in cambio di gioielli e buone armi. Lasciammo i carri ingombranti alle nostre spalle e ammucchiammo le nostre cose sulle nuove cavalcature.

Elena sopportava la fatica meglio della maggior parte degli uomini. Adesso viaggiava su un cammello ricalcitrante, a malapena addomesticato, in un’ondeggiante portantina di sete che la riparava dal sole. Diventammo tutti magri sino all’osso, prosciugati del grasso e dei liquidi dal sole impietoso. Eppure Elena conservava la sua bellezza, pur senza trucco e belle vesti. Non si lamentava mai della durezza del deserto; meglio di tutti noi, si rendeva conto che ogni passo che facevamo ci avvicinava all’Egitto.

Nemmeno io mi lamentavo. Non sarebbe servito a niente. E l’Egitto era anche la mia meta, con la grande piramide dove ancora una volta avrei incontrato il Radioso e avrei fatto in modo che mi restituisse la mia amata.

Arrivò infine il mattino in cui la nostra minuscola carovana vide una palma ondeggiare all’orizzonte. A me sembrò che ci stesse chiamando, dicendoci che il nostro viaggio era quasi finito. Incitammo i cammelli e i cavalli alla massima velocità, mentre gli asini ci seguivano imperturbabili e presto vedemmo la terra farsi verde davanti ai nostri occhi.

Alberi e campi coltivati ci davano il benvenuto. Uomini e donne mezzi nudi tra le messi, che lavoravano in una rete intricata di stretti canali di irrigazione. In lontananza, vidi scorrere un fiume.

— Il Nilo — disse Elena, dal cammello su cui si trovava. Lo guidava uno degli Ittiti e lei glielo aveva fatto portare vicino a me.

Io mi voltai sulla sella improvvisata, nient’altro che qualche coperta ripiegata sotto di me, e la guardai. — Uno dei suoi rami, almeno. Questa dev’essere la zona del delta, dove il fiume si divide in vari bracci.

I contadini non ci notarono affatto. Eravamo un gruppetto di soldati, pochi per significare qualcosa per loro, troppi per fare domande. Trovammo abbastanza in fretta una strada che portava alla città di Talphanes, nel cuore del delta.

Lukka era sorpreso per l’assenza di mura difensive: io ero sorpreso di quanto la città fosse grande. Mentre Troia e Gerico si stringevano fittamente su pochi acri, Talphanes si allargava per quasi un chilometro di diametro. Dubitavo che avesse una popolazione molto più numerosa di Gerico, ma la gente viveva in case spaziose e ariose, lungo viali larghi e diritti.

Trovammo una locanda ai margini della città, un gruppo di basse costruzioni di mattoni sistemate intorno a un cortile centrale, con palme e salici imponenti che offrivano riparo dal sole continuo. C’era anche un pergolato che stendeva i suoi viticci su una parte del cortile. Un orto, vicino alla locanda, dava sul fiume; le stalle erano dalla parte opposta. A seconda di come soffiava il vento, l’aria poteva odorare di limoni e melograni oppure di sterco di cavallo, con il noioso ronzare delle mosche.

Il locandiere fu felicissimo di ricevere quel manipolo di ospiti distrutti dal viaggio. Era un ometto basso, rotondo, calvo e gioviale, di mezza età, che teneva le mani sempre intrecciate sulla grande pancia. La sua pelle era scura come il mantello di Lukka, gli occhi due sfavillanti pezzi di carbone, specialmente quando era intento alla sua occupazione preferita: calcolare quanto avrebbe potuto far pagare per i suoi servizi.

Il personale era costituito dalla famiglia del locandiere, una moglie scura e rotonda come lui e persino più grassa, e una dozzina di figli dalla pelle bruna che andavano dai sei ai vent’anni. E gatti. Ne contai dieci solo nel cortile, che ci osservavano con gli occhi a fessura, camminando con passo felpato sulla ringhiera del balcone o sul terreno polveroso. I figli del locandiere corsero rapidamente ad aiutarci a scaricare le nostre cose, a badare agli animali, a mostrarci le nostre stanze. Non avevano addosso nemmeno un grammo di grasso.

Scoprii che riuscivo a parlare la lingua dell’Egitto facilmente come qualunque altra. Se Lukka era stupito del mio dono, non lo diede a vedere. Elena lo dava per scontato, anche se conosceva solo la sua lingua achea e il dialetto di Troia.

Dopo che ci fummo sistemati comodamente nelle nostre stanze, trovai il locandiere in una cucina all’aperto, che gridava ordini a due ragazzine che stavano cuocendo due pagnotte piatte e rotonde in un forno a forma di alveare. Indossavano solo un perizoma, contro il caldo del forno; i loro giovani seni nudi erano sodi, i loro corpi flessuosi e scuri, coperti di un velo di sudore.

Se il locandiere non gradiva che io vedessi le sue figlie seminude non ne diede segno. Mi sorrise e fece un cenno della testa verso di loro quando mi notò all’ingresso della cucina.

— Mia moglie insiste che devono imparare a cucinare come si deve — disse. — È necessario, se vogliono trovare marito, dice lei. Io credo che siano necessarie altre qualità, eh? — Rise complice e confidenziale.

Apparentemente, non aveva nulla in contrario a offrire le sue figlie agli ospiti, un fatto che Lukka avrebbe apprezzato. Io ignorai le sue insinuazioni, e dissi: — Ho portato questi uomini nella tua terra per offrire i loro servizi al re.

— Il potente Merenptah? Risiede a Wast, più in là, sul fiume.

— I miei uomini sono soldati professionisti della terra degli Ittiti. Cercano servizio presso il tuo re.

Il sorriso del locandiere svanì. — Ittiti? Sono stati nostri nemici…

— L’impero ittita non esiste più. Sono soldati senza più esercito. C’è un rappresentante del re in questa città? Qualche funzionario o capo militare con cui possa parlare?

Mosse la testa a scatti, abbastanza vigorosamente da far dondolare le guance. — Il sovrintendente del re. È qui, nel cortile. Aspetta di vederti.

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