— Lascerai che il Radioso porti a termine i suoi piani a Gerico? — Ares aveva gli occhi spalancati per l’incredulità. — Alimenterai la sua follia?
— Mi fiderò di Orion — rispose Zeus. — Per adesso.
Gli altri tre cominciarono a parlare contemporaneamente, ma io non sentii mai cosa dissero. Zeus mi fece un cenno con la testa, poi mosse leggermente la mano destra.
E improvvisamente mi ritrovai nel buio completo del tunnel, alla base del muro principale di Gerico.
Rimasi lì tremante per diversi minuti. La fine si avvicinava, lo sapevo. Potevano non essere capaci di scovare il Radioso, ma certamente sapevano scovare me. Nell’istante in cui le nostre strade si fossero incrociate, gli sarebbero saltati addosso e l’avrebbero condannato, ucciso, prima che io avessi la minima possibilità di resuscitare la dea che avevo amato.
Mi costrinsi a calmarmi. L’amara iniquità della situazione faceva quasi ridere. Io volevo distruggere il Radioso. Loro volevano distruggere il Radioso. Ma io dovevo proteggerlo finché non avesse fatto il suo tentativo di riportare alla vita Atena. Dubitavo che potesse farlo. E più ci pensavo, più disperavo della sua capacità di restituirmela.
Eppure, era abbastanza intelligente, e abbastanza potente, da eludere il loro controllo. Non riuscivano a trovarlo, pur sapendo che doveva essere dalle parti di Gerico. Avevano paura di lui, paura per le loro vite. Forse lui era davvero il più potente tra loro. E mentre loro cercavano di scovarlo e di distruggerlo, lui stava progettando di distruggerli a sua volta. Mi trovavo al centro di un’autentica lotta Olimpica.
Un leggero suono mi fece trasalire. Un rumore stridente, piagnucoloso. Le trombe di corno! Sbattendo gli occhi, mi resi conto che una sottile lama di luce penetrava fino a me. Era mattina. Giosuè aveva cominciato la sua parata. Per Gerico stava arrivando il colpo di grazia.
Picchiai sulla pietra focaia e accesi la torcia, poi la misi sul mucchio di sterpaglia contro il muro. Secchi come il deserto nella stagione calda, i rami presero fuoco istantaneamente. Mi allontanai dal calore improvviso, e mi resi conto che avrei fatto meglio a uscire il più rapidamente possibile.
Mi chinai per entrare nella parte più bassa del tunnel e fuggii come un ragno dalle zampe storte, con il calore dietro di me che sembrava volesse raggiungermi. Mi chiesi se il fuoco avrebbe attaccato anche le travi che sostenevano il cunicolo intrappolandomi nel crollo. Stavo strisciando sul ventre, adesso, molto più lentamente di quanto volessi. Ricordai confusamente altre vite, altre morti: nella furia bollente di un vulcano in eruzione, nel vortice fiammeggiante di un reattore nucleare.
Il fumo mi faceva tossire. Chiusi gli occhi; tanto non avrei potuto vedere molto in quel buio profondo. Avanzai strisciando, incalzato dal calore alle mie spalle e richiamato da un accenno d’aria fresca di fronte.
Improvvisamente, sentii due forti mani che mi afferravano per i polsi e mi trascinavano sul terreno scabroso. Aprii gli occhi e vidi Lukka, che tirando, sbuffando, imprecando mi portava alla luce del sole e al sicuro.
Ci alzammo in piedi, circondati dai soldati hatti. Erano armati di tutto punto, adesso, con gli scudi e le armature pronti per la battaglia.
— Funziona? — chiesi a Lukka. Lui sorrise gravemente. — Vieni a vedere da te.
Uscimmo insieme dalla tenda e guardammo in direzione della città. Spirali di fumo si stavano alzando dalla base del muro. Stavano passando da un grigio biancastro a un colore più scuro e minaccioso. Il fumo si fece più denso.
— I tronchi devono aver preso — disse Lukka.
Lontano, intorno alla curva del muro, i sacerdoti israeliti non avevano smesso di soffiare nei corni, di picchiare sui tamburi, di far risuonare i piatti. Cantavano le lodi del loro Signore, e la gente di Gerico se ne stava sulla cima del muro condannato a guardare lo spettacolo, continuando con i suoi motteggi e ridendo divertita.
Mi rivolsi a guardare il campo degli Israeliti. Gli attaccanti stavano mettendosi in formazione. Non portavano uniforme, avevano poche armature, ma ognuno aveva un qualche tipo di scudo e una spada o una lancia. Erano pronti per la battaglia.
Mentre la processione dei sacerdoti continuava a girare intorno al muro, Giosuè ordinò ai suoi uomini di mettersi in marcia. Ne contai varie migliaia, dai ragazzi agli anziani. Marciavano a tempo con i sacerdoti, anche se si tenevano più lontani dalla città, fuori dalla portata degli archi.
I sacerdoti videro il fumo salire e si allontanarono, tornando verso l’accampamento. Gli armati si diressero alla cinta muraria, come aspettandosi che cadesse loro ai piedi.
E così fu.
Mentre l’armata degli Israeliti si avvicinava ai bastioni, il fumo diventò più denso e più nero. Sentii strani rumori borbottanti, come se sottoterra qualcuno gemesse invocando aiuto. La gente di Gerico si agitava e gesticolava, adesso, con grida di terrore improvviso.
Poi, con il roboare profondo di un gigante che crolla, un’intera sezione di muro franò, rotolò su se stessa in una rovina di mattoni. Nubi di polvere grigio-rossastra macchiarono il fumo e avanzarono nella pianura verso di noi.
Una singola nota di tromba risuonò chiara e acuta in mezzo al fragore e alle grida. Con un boato che scosse il terreno, l’esercito d’Israele si riversò sul mucchio di macerie, oltre la breccia delle mura di Gerico.
Trattenni Lukka e i suoi uomini per metà della giornata, per evitare che corressero rischi. Avevamo fatto il nostro lavoro, la battaglia riguardava gli Israeliti.
Ma quando il sole fu alto, Gerico era in fiamme, e persino l’imperturbabile Lukka era impaziente di andare a raccogliere il bottino.
Io ero vicino alla tenda da cui partiva il tunnel e guardai le nuvole di sgradevole fumo nero spargersi nel cielo. Gli uomini di Lukka erano seduti o in piedi, in quel poco d’ombra che potevano trovare, e gli gettavano occhiate interrogative. Infine, lui si voltò verso di me.
Prima che potesse parlare, dissi: — Tornate al calar della notte.
Mi scoccò uno dei suoi rari sorrisi e fece segno ai suoi uomini di seguirlo. Balzarono in piedi come cuccioli di lupo famelici, felici di andare a caccia.
Andai con loro fino alla breccia, per vedere con i miei occhi il frutto del nostro lavoro. Il muro era grosso più di nove metri, dov’era ancora in piedi. Sentivo il calore del mucchio di macerie anche attraverso le suole degli stivali. Il fuoco non si era spento, bruciava ancora, lì sotto. Spire sottili di fumo grigio salivano in corrispondenza di altre travi di sostegno, ai lati della nostra breccia. Il fuoco avrebbe bruciato ancora per ore, forse per giorni, mi resi conto. Altre sezioni di muro sarebbero cadute.
In città, era come essere a Troia. Gli Israeliti uccidevano e violentavano e bruciavano, proprio come i barbari achei. In preda a una feroce sete di sangue, e non importa quale dio venerassero o come lo chiamassero, anche loro si comportavano da bestie.
“Forse Elena ha ragione” pensai. “Forse in Egitto troveremo esseri civili, ordine e pace.”
Scesi dalle macerie fumanti e mi diressi alla mia tenda. Elena stava tenendo una riunione, lì fuori, circondata da più di due dozzine di donne israelite. Arrivai abbastanza vicino da sentire qualcuna delle sue parole. — Saranno sporchi, insanguinati ed eccitati, quando torneranno. Dovreste tenere pronta dell’acqua profumata con cui lavarli, ristorarli e placarli.
— Acqua profumata? — chiese una delle donne.
— In una tinozza? — chiese un’altra.
Elena rispose. — Sì. E lasciate che siano i servi a fare il bagno ai vostri mariti.
— Servi? — Risero tutte.
Elena sembrava perplessa.
— Ma dicci una cosa — chiese una delle donne più anziane — come fai a rendere i tuoi occhi più grandi?
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