Io non commentai e lasciai che l’uomo mi conducesse nel cortile. Il sovrintendente del re era già lì, alla locanda, per esaminarci. Il nostro ospite doveva avergli mandato in tutta fretta uno dei suoi figli nel momento stesso in cui eravamo arrivati alla sua porta.
Numerosi gatti schizzarono via dalla nostra strada mentre il locandiere mi precedeva lungo un corridoio circondato da colonne e poi nel cortile, da un’entrata laterale. Seduto all’ombra del pergolato c’era un uomo dai capelli grigi, con un viso piccolo e le guance incavate, completamente rasato, come tutti gli Egiziani. Si alzò in piedi quando mi avvicinai a lui. Non era più alto del locandiere, e i suoi capelli grigi mi arrivavano a malapena alla spalla. La sua pelle, però, era di una sfumatura più chiara, e il naso sottile come la lama di una spada. Dal suo viso serio, gli occhi mi studiavano attentamente mentre mi avvicinavo. Indossava un fresco caftano così leggero che riuscivo a vedere in trasparenza il corto gonnellino che portava sotto. Non aveva nessun’arma visibile. Il solo emblema del suo ufficio era un medaglione d’oro appeso a una catena intorno al collo.
Improvvisamente, mi sentii decisamente sporco. Indossavo ancora il gonnellino di pelle e l’armatura che portavo da molti mesi, sotto una veste leggera. Per lunga abitudine avevo ancora un pugnale legato alla coscia, sotto il gonnellino. I miei indumenti erano logori e sciupati dal viaggio. Avevo bisogno di un bagno e di radermi, e pensai seriamente di mettermi sottovento rispetto a quell’uomo così lindo e civile.
— Sono Nefertu, servo del Re Merenptah, sovrano delle Due Terre — disse, senza sollevare le braccia che teneva lungo i fianchi.
— Io sono Orion — risposi.
C’erano due panche di legno sotto i rami contorti del pergolato. Nefertu m’invitò a sedere. “È educato” pensai “o forse si sente semplicemente a disagio a dover allungare il collo per guardarmi.” La mia testa sfiorava i tralci di vite.
Il nostro geniale ospite uscì tempestivamente dalla zona della cucina portando un vassoio con una caraffa imperlata di goccioline, due belle coppe di porcellana e una ciotola colma di grinzose olive nere. Lo depose su un tavolo di legno a portata di mano di Nefertu, poi si inchinò e tornò sorridendo verso la cucina. L’Egiziano versò il vino e me ne offrì una coppa. Bevemmo insieme. Il vino era mediocre, leggero e acido; ma era freddo, e tanto bastava.
— Non sei un Ittita — disse con calma, mettendo giù la coppa. La sua voce era bassa e controllata, come di chi è abituato a parlare con gente al di sotto quanto al di sopra del proprio rango.
— No — ammisi. — Vengo da molto lontano.
Ascoltò pazientemente la mia storia su Troia, su Gerico, su Lukka e i suoi uomini che cercavano servizio presso il suo re. Non mostrò nessuna sorpresa alla caduta dell’impero ittita. Ma quando parlai degli Israeliti a Gerico, i suoi occhi si spalancarono leggermente.
— Sono gli schiavi che il nostro re Merenptah ha cacciato al di là del Mar Rosso?
— Gli stessi — risposi — anche se loro dicono di essere fuggiti dall’Egitto e che il vostro re ha cercato di ricatturarli senza riuscirci.
L’ombra di un sorriso vibrò sulle labbra di Nefertu. Lui la cancellò immediatamente e chiese con una certa sollecitudine: — E quella stessa gente ha conquistato Gerico?
— Sì. Credono che il loro dio abbia assegnato loro l’intera terra di Canaan, e che il loro destino sia di governarla tutta.
Nefertu sorrise di nuovo, leggermente, come chi apprezza una situazione ironica. — Possono formare un utile paraurti tra il nostro confine e le tribù dell’Asia — rifletté. — Queste notizie devono essere passate al Faraone.
Parlammo per ore, in quell’angolo ombroso del cortile. Seppi che la parola Faraone, come diceva Nefertu, più che il sovrano designava essenzialmente il governo, la casa del re, la sua amministrazione. Erano anni che l’Egitto veniva attaccato da quelli che lui chiamava i Popoli del Mare, guerrieri non meglio identificati del continente europeo e delle isole egee che sporadicamente razziavano le città del delta e della costa. Considerava Agamennone e i suoi Achei alla stregua dei Popoli del Mare: barbari. Vedeva la caduta di Troia come un colpo inferto alla civiltà, e io ero d’accordo con lui, anche se non gli dissi come avevo sfidato il Radioso per dare il mio contributo a quella distruzione. Come non gli dissi che la donna che viaggiava con me era la regina Elena di Sparta, né che il suo legittimo marito, Menelao, la stava cercando. Parlai solo delle guerre che avevo visto, e del desiderio che la mia banda entrasse al servizio del suo re.
— L’esercito ha sempre bisogno di uomini — disse Nefertu. Il vino era finito da tempo, delle olive non era rimasto altro che un mucchio di semi e il tramonto del sole disegnava lunghe ombre nel cortile. Il vento era cambiato: mosche provenienti dalle stalle ronzavano intorno a noi fastidiosamente. Ma Nefertu non chiamò nessuno schiavo a sventolare un ventaglio per scacciarle.
— Gli stranieri sono accettati nell’esercito? — chiesi.
Il suo piccolo sorriso ironico tornò. — L’esercito è composto quasi solo da stranieri. La maggior parte dei figli delle Due Terre ha perso la sete di glorie militari molto tempo fa.
— Allora gli Ittiti sarebbero accettati?
— Accettati? Sarebbero i benvenuti, soprattutto se hanno le conoscenze di ingegneria di cui parli.
Mi disse di aspettare alla locanda finché non fosse riuscito a mettersi in contatto con Wast, la capitale, molto più a sud. Mi aspettavo di rimanere a Talphanes per molte settimane, invece il giorno dopo Nefertu tornò alla locanda e mi disse che il generale del re voleva vedere gli uomini dell’esercito ittita.
— È qui a Talphanes? — chiesi.
— No, è nella capitale, alla grande corte di Merenptah. A Wast.
Sbattei gli occhi per la sorpresa. — Allora, come hai fatto a mandare un messaggio.
Nefertu rise, un sorriso gentile, davvero divertito. — Orion, più di tutti gli altri dèi noi veneriamo Amon, lo stesso sole glorioso. Lui rende rapidi messaggi per tutta la lunghezza e la larghezza della nostra terra, su specchi che catturano la sua luce.
Un telegrafo solare. Risi anch’io. Che cosa ovvia, scontata. I messaggi potevano andare su e giù per il Nilo quasi alla velocità della luce.
— Devi portare i tuoi uomini a Wast — disse Nefertu. — E io vi accompagnerò. Sarà la mia prima visita alla capitale dopo molti anni. Devo ringraziarti per questa opportunità, Orion.
Io accettai i suoi ringraziamenti inchinando leggermente la testa.
Elena era felicissima di andare nella capitale.
— Non abbiamo nessuna garanzia di vedere il re — l’avvisai. Mi zittì con un vago gesto della mano. — Quando si renderà conto che la regina di Sparta e principessa di Troia è nella sua città, certo pretenderà di vedermi.
Io ribattei: — Quando si renderà conto che Menelao può fare razzie sulle sue coste nel tentativo di trovarti, potrà anche pretendere che tu sia restituita a Sparta.
Lei tacque, accigliata.
Quella notte però, mentre stavamo sdraiati sul morbido letto di piume della locanda, Elena si voltò verso di me e chiese: — Cosa succederà quando mi consegnerai al re egiziano?
Io le sorrisi nelle ombre della luna e le accarezzai i capelli dorati. — Senza dubbio, s’innamorerà follemente di te. O, quanto meno, ti darà in sposa a uno dei suoi figli.
Ma lei non era in vena di scherzare.
— Non pensi seriamente che mi manderebbe di nuovo da Menelao, vero?
Anche se pensavo che fosse possibile, risposi: — No, certo che non lo farebbe. Come potrebbe? Tu vai da lui per avere la sua protezione. Non può dire di no a una regina. Per questa gente gli Achei sono potenziali nemici: non ti obbligheranno a tornare a Sparta.
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