Quasi giovialmente, Nekoptah rispose. — Proprio lui. Portalo qui. Da me. — Il suo sorriso era rimasto fisso sulle labbra carnose, ma entrambe le mani si erano strette a pugno.
Io chiesi: — Come saprà che ti rappresento?
Lui rispose ridendo: — Non avrà nessun dubbio in merito, non temere. Ma per convincere i soldati del tempio che fanno la guardia alla sua carcassa senza valore… — si sfilò un anello d’oro massiccio dal pollice sinistro. C’era incastonata una corniola rosso sangue con incisa una miniatura di Ptah. — Ecco. Questo convincerà chiunque ne dubiti che agisci per mio conto.
L’anello era pesante e caldo nella mia mano. Nefertu lo fissò come se fosse la sentenza di morte di qualcuno.
Evidentemente, Nefertu era ancora scioccato dal nostro incontro con il primo ministro. Rimase in silenzio mentre venivamo scortati al mio appartamento, molto al di là del complesso di templi e palazzi che costituivano la reggia.
Anch’io rimasi in silenzio, cercando di far combaciare i pezzi del rompicapo. Che mi piacesse o no, mi trovavo implicato in una qualche cospirazione; Nekoptah mi stava usando per i suoi scopi, e dubitavo che coincidessero con i migliori interessi del Regno delle Due Terre.
Uno sguardo a Nefertu mi disse che non mi avrebbe fornito alcuna spiegazione. Aveva il viso del colore della cenere mentre camminavamo tra le guardie dall’armatura dorata, lungo i corridoi e i cortili circondati di colonne, con i gatti che si muovevano furtivamente tra le ombre. Le mani gli tremavano, la sua bocca era una linea sottile, con le labbra strette così forte da essere bianche.
Raggiungemmo il mio appartamento e l’invitai ad entrare.
Scosse la testa. — Temo che ci siano altri affari di cui devo occuparmi.
— Solo per un momento — dissi. — C’è qualcosa che devo mostrarti. Per favore.
Congedò le guardie ed entrò nella mia stanza, gli occhi impauriti ma curiosi.
Sapevo che eravamo osservati. Da qualche parte c’era uno spioncino abilmente nascosto, e qualcuno al servizio del sommo sacerdote di Ptah stava seguendo ogni nostro gesto. Condussi Nefertu a due sedie di corda intrecciata sulla terrazza, davanti al cortile e alle palme fruscianti.
Dovevo sapere cosa sapeva. Non me l’avrebbe detto volontariamente, questo lo capivo, quindi dovevo scrutare nella sua mente, che lui volesse o no. Forse, sotto la superficie del suo rigido autocontrollo, una parte di lui cercava un alleato contro qualunque cosa lo spaventasse.
Il pover’uomo sedeva proprio in punta alla sedia, la schiena dritta come un fuso, le mani strette sulle ginocchia. Avvicinai la mia sedia e gli posai una mano sulla spalla magra. Potevo sentire la tensione dei nervi del collo.
— Cerca di rilassarti — gli dissi piano, tenendo la voce bassa in modo che chiunque stesse guardando non potesse sentire.
Gli massaggiai la base del collo con una mano, fissandolo profondamente negli occhi. — Ci conosciamo da molte settimane, Nefertu. Ho imparato ad ammirarti e a rispettarti. Voglio che tu pensi a me come a un amico.
Il suo mento si abbassò leggermente. — Tu sei mio amico — assentì.
— Mi conosci abbastanza bene da renderti conto che non voglio farti del male. Né voglio far consapevolmente male al tuo popolo, al popolo delle Due Terre.
— Sì — disse con tono assonnato. — Lo so.
— Puoi fidarti di me.
— Posso fidarmi di te.
Lentamente, lentamente, costrinsi il suo corpo e la sua mente a rilassarsi. Era quasi addormentato, anche se i suoi occhi erano aperti e mi poteva parlare. Ma la sua mente cosciente, la sua forza di volontà, erano allentate. Era un uomo spaventato, che aveva terribilmente bisogno di un amico di cui fidarsi. Lo convinsi non solo che poteva fidarsi di me, ma che doveva dirmi cosa lo spaventava.
— Questo è il solo modo in cui posso aiutarti, amico mio.
I suoi occhi si chiusero per un attimo. — Capisco, amico Orion.
Lentamente cominciò a parlare, con una voce bassa e monotona che speravo non arrivasse alle spie di Nekoptah. La storia che mi rivelò era complicata come avevo temuto. E sapeva di pericolo. Non solo per me; io ero abituato al pericolo e non mi faceva realmente paura. Ma Elena aveva inavvertitamente messo il piede nella trappola che Nekoptah aveva abilmente ideato. Per quanta ripugnanza provassi per lui, dovevo ammirare la sagacia della sua mente e rispettare l’audacia e la velocità delle sue mosse.
Si sussurrava da una parte all’altra del regno, mi disse Nefertu, che il re Merenptah stesse morendo. Qualcuno diceva per deperimento; altri per veleno. Ma comunque stessero le cose, il potere del trono veniva esercitato dal primo ministro del re, l’obeso Nekoptah.
L’esercito era fedele al sovrano, non a un sacerdote di Ptah. Ma era debole e diviso. I suoi giorni di gloria sotto Ramesses II erano finiti da tempo. Merenptah aveva lasciato che si sgretolasse a tal punto che la maggior parte dei soldati erano stranieri e la maggior parte dei generali erano vecchi, pomposi palloni gonfiati che vivevano degli allori del passato. Se al tempo di Ramesses avevano respinto i Popoli del Mare che razziavano il delta, ora i barbari saccheggiavano e terrorizzavano il Basso Regno, e l’esercito sembrava incapace di fermarli.
Nekoptah non voleva un esercito forte. Sarebbe stato un ostacolo al suo controllo sul re e sul regno. Però, non poteva permettere ai Popoli del Mare di depredare ulteriormente le città costiere: il Basso Regno sarebbe insorto contro di lui se non fosse riuscito a difenderlo adeguatamente. Così il sommo sacerdote di Ptah aveva escogitato un brillante piano: mandare il contingente ittita appena arrivato contro i predoni, come parte di una nuova spedizione militare nel delta. Lasciare che i capi barbari vedessero che gli uomini che avevano rapito Elena a Troia, adesso, erano in Egitto. Far loro sapere che, proprio come sospettavano, Elena era sotto la protezione del regno delle Due Terre.
E dir loro anche, tramite un messaggero segreto, che Elena sarebbe stata restituita se avessero smesso le loro razzie. Non solo: Nekoptah era pronto a offrire a Menelao e ai suoi Achei una parte del ricco Paese del delta se avessero protetto il Basso Regno dagli attacchi degli altri Popoli del Mare.
Ma prima, Menelao doveva essere certo che Elena fosse davvero in Egitto. Per questo, Orion e i suoi Ittiti sarebbero stati mandati nel delta come agnelli sacrificali, a farsi massacrare dai barbari.
E ancora.
Una certa irrequietezza per l’usurpazione di fatto da parte di Nekoptah cominciava già a serpeggiare nella città di Menefer, l’antica capitale, dove le grandi piramidi proclamavano il culto di Amon. Il gran sacerdote di quel dio, di nome Hetepamon, era il capo di una congiura contro Nekoptah. Se Orion fosse uscito vivo dalle battaglie del delta, doveva portare Hetepamon a Wast. Come ospite, se possibile. Come prigioniero, se necessario.
Naturalmente, se Orion fosse stato ucciso dai Popoli del Mare, sarebbe stato mandato qualcun altro a strappare Hetepamon al suo tempio e a consegnarlo nelle mani di Nekoptah.
Un piano preciso, degno di una mente astuta.
Mi appoggiai allo schienale della sedia e allentai la presa sulla mente di Nefertu. Lui si chinò leggermente, poi inspirò una profonda boccata d’aria. Strizzò gli occhi, scosse la testa, intontito, poi mi sorrise.
— Mi sono addormentato?
— Ti sei assopito un attimo — risposi.
— Che strano.
— L’incontro di stamattina è stato molto faticoso.
Si alzò in piedi e si stiracchiò. Guardando oltre il cortile sotto di noi, vide che il sole stava quasi tramontando.
— Devo aver dormito per ore! — e mi guardò sinceramente perplesso. — Quanto dev’essere stato noioso per te.
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