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Algis Budrys: Morte dell'utopia

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Algis Budrys Morte dell'utopia

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Il pavimento del mondo è increspato come il fondale di un oceano. Il sole al tramonto inchiostra d’ombra violetta ogni increspatura. Le dune riempiono il mondo fino agli orli. E su questo pianeta che non è la Terra, un uomo insegue l’amsir, la grande bestia alata, per ucciderla. Perché gli uomini hanno sempre fatto cosi, da che il tempo è iniziato all’ombra della Spina. Ma per Honor White Jackson qualcosa cambia all’improvviso: l’amsir parla, e scaglia dardi. Forse, allora, la realtà non è soltanto quella di cui ha sempre parlato l’Anziano... Cosi inizia Morte dell’utopia, uno dei romanzi più originali, magici e inquietanti della fantascienza moderna, scritto da un maestro del genere, Algis Budrys.

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Aria. Densa, limpida e lucente, si tese per avvilupparlo quando l’amsir lo spinse avanti.

Ariwol!, pensò Jackson, Ariwol, in nome di tutta la devozione! Inarcò la schiena e guardò di nuovo il cielo. Gridano e cantano e ridono, pensò. Ma non ti vedo, Red.

CAPITOLO 7

I

«Dovrai scendere», disse l’amsir, mostrando a Jackson un punto dell’orlo, dove si scorgeva qualcosa che sembrava un sentiero. «Puoi lasciare qui quella roba. Verranno a prenderla».

Jackson lasciò cadere la roba a terra e quando l’amsir, con fare negligente, gli toccò con la punta del giavellotto la calotta di ferro, Jackson si tolse anche quella, e la depose sul mucchio. Gli restavano soltanto il dardo, ancora incastrato nella giuntura del gomito sinistro, e il laccio emostatico di pelle umana. Alzò le spalle e cominciò a scendere. Per arrivare sul fondo c’era un dislivello sei o otto volte maggiore della sua statura.

L’amsir fece qualcosa che doveva dargli un grande piacere. Si lanciò da una punta dell’orlo, piegò le ali a coppa, e volteggiò trionfalmente, in modo da poter continuare a tener d’occhio Jackson mentre scendeva. Di tanto in tanto batteva le ali un paio di volte, con eleganza, per non precipitare troppo rapidamente.

Per Jackson, la discesa non era altrettanto piacevole. Doveva arrangiarsi con una mano sola, e molto spesso era costretto a puntellarsi con la faccia o il petto nella ghiaia, per non scivolare. Un maledetto guaio, no?

Cominciò a imbattersi in chiazze della bella sostanza verdazzurra che aveva visto riempire il fondale di quel mondo, fino all’orlo. Era molliccia e fragile. Si frantumava e gli aderiva alla mano e al corpo, quando lui strusciava contro le rocce su cui cresceva. Aveva un odore forte, come la pasta per pane invecchiata, e si staccava in minuscole foglioline. Jackson non aveva mai visto nulla di simile. Sebbene dall’alto dell’orlo sembrasse bellissima, laggiù somigliava molto a qualcosa che avesse fatto vomitare qualcuno.

Scese sul fondovalle piatto, con una torsione che lo lasciò appoggiato contro le rocce, alla base dell’orlo. Da lì, c’era soltanto un declivio dolce per una dozzina di dozzine di lunghi balzi, e poi il terreno si appiattiva. Già da quell’angolo, la vista della Spina degli amsir era ostruita quasi completamente dalle case sulle palafitte. Così, la città sembrava un po’ diversa, meno dispersa e piuttosto affollata.

L’avambraccio sinistro e la mano stavano diventando di un bianco violaceo. L’amsir scese leggero a pochi passi da lui, quando si fermò per allentare il laccio sopra il gomito e si chinò a guardare il sangue che sgorgava intorno al dardo. Tentò di muovere le dita. Poi usò la mano destra per premere sulle dita rigide. Dopo un poco, riuscì ad accostare leggermente il pollice e l’indice. E gli cominciavano a dare l’impressione che li stesse tenendo sul fuoco. Strinse di nuovo il laccio di pelle.

L’amsir chiese, incuriosito: «Quanto tempo ci vorrà perché guarisca?».

«Non so. Molto tempo, credo. Te lo saprò dire dopo che qualcuno mi avrà aiutato a estrarre il dardo».

«Noi abbiamo gente capace di farlo. Ma non intendevo dire quanto ci vorrà prima che ritorni perfetto. Secondo la tua esperienza, entro quanto tempo potrà riprendere a funzionare?».

«Senti, non lo so. Sei, nove giorni. Forse dodici. Forse tre».

«Tre…», ripeté pensieroso l’amsir. Squadrò Jackson dalla testa ai piedi. «Non prima?».

«Senti, te l’ho detto… » . Jackson s’interruppe e desistette. La gente non credeva mai a niente che non avesse toccato con mano, e l’amsir non aveva un dardo nel gomito. L’amsir se ne stava lì, con le trine a svolazzargli intorno nella brezza che saliva verso l’orlo, lungo il pavimento del mondo, e svaniva su per le rocce. Jackson si accorse che qualcosa era cambiato, nella faccia dell’amsir: vide che c’erano due aperture corrugate, dove sarebbero state le narici di un uomo se il suo labbro superiore fosse stato il becco di un amsir. E sentiva l’aria che usciva ed entrava, sibilando. L’amsir era sopravvento rispetto a lui e, adesso che l’aveva notato, Jackson sentiva l’odore dell’aria vecchia che fuoriusciva dalle bolle pettorali.

«Vieni», disse l’amsir, con un movimento del giavellotto. «Non abbiamo tempo da perdere. Devi andare alla torre». Indicò con le punta di un’ala. Jackson capì che si riferiva alla Spina. «Dovrai camminare attraverso i campi», disse l’amsir, lanciandosi nell’aria per volteggiare guardingo intorno a Jackson. «Noi non facciamo strade».

Voi non fate molti prigionieri, pensò Jackson. È davvero un gran giorno.

Si fermarono brevemente, una volta, alla più vicina delle case su palafitte. Era fatta di una sostanza dura come il corno, ma tutta scalfita e vecchissima: sembrava che un tempo avesse avuto una quantità molto maggiore di particelle di quel suo colore giallovivo. L’amsir si lanciò più in alto, si aggrappò a una delle sporgenze con gli artigli e una mano. Poi alzò l’altra mano e tirò il cerchio oscillante della linea che collegava la casa a quella accanto. Jackson udì una campana tintinnare all’interno. Clang, pausa lunga, clang clang, pausa breve, e poi altri clang e altre pause spaziate.

Il suono si confuse negli orecchi di Jackson. Appena il filo ebbe trasmesso il messaggio dell’amsir alla casa vicina, sentì un’altra campana, là dentro, echeggiare il suono. Poi lo udì di nuovo, più debolmente, nella casa più oltre e poi, molto fioco, in distanza: procedeva sempre in direzione della Spina. L’amsir smise di tirare e attese. Dopo un po’, Jackson udì un suono che ritornava lungo le corde, dalla Spina. Quale che fosse, fu una risposta breve. L’amsir annuì soddisfatto e con il giavellotto accennò a Jackson di proseguire.

«Bene, adesso affrettati», gli gridò dall’alto. «Ti stanno aspettando».

Altri amsir s’erano accorti della loro presenza. Alcuni uscivano dalle porte delle case, si lanciavano nell’aria e scendevano volteggiando per dare un’occhiata a Jackson. Altri (donne e bambini, almeno si comportavano come avrebbero fatto le donne e i bambini dei contadini) si tenevano aggrappati agli stipiti delle porte.

Si formò una specie di processione, Jackson a terra e tutti gli abitanti in volo. Gli amsir lanciavano richiami l’uno all’altro, e ai familiari nelle rispettive case. E i familiari rispondevano. C’era un gran baccano nell’aria, e ombre e colpi di vento al suolo. Jackson provò a sconcertarli camminando sotto le case anziché intorno, ma là sotto c’era troppo letame, e non ritentò una seconda volta. Procedeva a testa china, cercando di non urtare il braccio, canticchiando una canzoncina che sua madre gli aveva insegnato e aveva amato sentirgli ripetere.

«Ah, quando sarò un Honor, / E andrò in cerca di selvaggina, / La gente della terra loderà il mio nuovo nome. / L’Anziano mi raserà / E mi darà un nuovo nome / E la gente del ferro banchetterà con la mia selvaggina. / Le bestie della sabbia / Avranno paura di me. / L’Honor del ferro / Avrà un nome nuovo!

Ritornello: Talordims zasherparda / Ishalna twan / Talordims zasherparda / Ishalna twan!».

Prima ancora che lui arrivasse ai piedi della loro Spina, gli amsir erano quasi fuori di sé per l’eccitazione; fra i richiami e le grida e il frullo delle ali, lui avrebbe potuto rovesciare la testa all’indietro e urlare con tutta la forza dei polmoni, e chi l’avrebbe sentito? Esattamente. Chi l’avrebbe sentito? A lui faceva piacere canticchiare, e poi era digustato dal modo in cui si comportavano gli amsir.

C’erano guardie all’ingresso della Spina, e ululavano e agitavano i giavellotti per deferenza verso il suo amsir, che aveva portato un umano. C’erano folle rumorose che piombavano già dall’aria e si intruppavano dietro di lui e il suo amsir e avanzavano verso l’entrata. Ma soltanto Jackson e il suo amsir vennero ammessi, e la porta si chiuse di scatto dietro di loro; rimasero per un momento in silenzio, e poi Jackson fu spinto avanti, lungo il corridoio, verso la stanza dov’erano attesi. All’improvviso c’era un gran silenzio. Jackson si sentì sospingere nella stanza, e oltre ad altri amsir di vari tipi e grandezze ce n’era uno che stava acquattato e che girò la testa sul collo storto.

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