Algis Budrys - Morte dell'utopia

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Morte dell'utopia: краткое содержание, описание и аннотация

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Il pavimento del mondo è increspato come il fondale di un oceano. Il sole al tramonto inchiostra d’ombra violetta ogni increspatura. Le dune riempiono il mondo fino agli orli. E su questo pianeta che non è la Terra, un uomo insegue l’amsir, la grande bestia alata, per ucciderla. Perché gli uomini hanno sempre fatto cosi, da che il tempo è iniziato all’ombra della Spina. Ma per Honor White Jackson qualcosa cambia all’improvviso: l’amsir parla, e scaglia dardi. Forse, allora, la realtà non è soltanto quella di cui ha sempre parlato l’Anziano... Cosi inizia Morte dell’utopia, uno dei romanzi più originali, magici e inquietanti della fantascienza moderna, scritto da un maestro del genere, Algis Budrys.

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Mi lasceranno in pace almeno ad Ariwol?, pensò Secon Jackson, mentre si contorceva per sottrarsi di nuovo a Filson. Cercò di pensare a tutto quello che poteva fare con un braccio solo. Poteva strappare la calotta di Red, forse. Ma la sua era allentata, e gli sobbalzava sulla testa; non era nelle condizioni ideali per un gioco che si poteva giocare in due. Tentò di afferrare il braccio con cui Filson reggeva il dardo, ma era come cercare di trattenere un pezzo della Spina che avesse preso vita. Riuscì solo a piantare le unghie nel bicipite di Filson, mentre lasciava la presa. Calcolò che avrebbe dovuto impiegare due o tre giorni per ucciderlo a unghiate.

Girò su se stesso e tentò di strapparsi il dardo dal gomito, per avere anche lui un’arma: ma quel tentativo quasi lo fece svenire.

Si azzuffavano e saltellavano come due bambini sotto una coperta, là fuori, roteavano e brancolavano, cercando nell’oscurità, sollevando la polvere, provocando suoni che sembravano schiaffi, tanto tentavano di abbrancarsi l’un l’altro e si mancavano. Ma non sarebbe durata ancora a lungo, prima che Filson mettesse a segno l’altro dardo. Jackson lo sapeva, e Filson lo sapeva. Filson si comportava come se fosse un allenamento. Trovava addirittura il tempo di parlare. «Dove credevi di andare?», ansimò. «Sta bene essere pazzo, ma non avevo mai pensato che fossi scemo».

Forse credeva che quella sarebbe stata la battuta conclusiva. Il suo braccio si piegò, si abbassò e si rialzò, e l’avambraccio scattò, avventando il dardo verso la faccia di Jackson. Jackson si lasciò cadere, sfuggendogli, ma balzò in piedi di nuovo. Fece un tentativo di sbattere insieme le ginocchia di Filson, e poi si buttò di traverso, sottraendosi appena al colpo dell’altro. Jackson era a terra, con metà faccia contro la sabbia.

E questo determinò la differenza. Sentì i suoni nuovi che si avvicinavano rapidi… chicka-sip, chicka-sip, chicka-sip.

Mentalmente, ma molto in fretta, Secon Jackson rise come un pazzo. Stava funzionando, dopotutto. E, adesso, rischiava di morire prima di poterne avere la certezza. Ma forse ci sarebbe riuscito, se avesse potuto tenere a bada Red.

Dovette interrompersi per sottrarsi alla nuova carica.

Ma era bello sapere che aveva intuito tutto esattamente dal momento in cui, nella stanza dell’Anziano, nella Spina, aveva cominciato a pensarci, perché… Dove esisteva un’altra speranza per lui?

Lanciò la risata nell’aria fredda. «Uh!». Sferrò un calcio alla caviglia di Red, lo costrinse ad arretrare saltellando. «Io so dove sto andando». Be’, no, non lo sapeva, ma sapeva con chi sarebbe andato. Chicka-sip, chicka-sip, chicka-sip, whop! Quello era il suono dell’amsir in corsa che atterrava pesantemente su entrambi i piedi, lì vicino. Contro le stelle e l’orizzonte, Jackson intravide per un attimo un giavellotto, un’ala che si spiegava.

«Mi arrendo! Mi arrendo!», gridò Jackson all’amsir, lanciandosi per abbrancare Red che s’era distratto. Le sue due dita rigide si agganciarono nelle narici di Filson. Il braccio si tirò all’indietro, con forza: e nello stesso tempo Jackson piantò saldamente un piede e sferrò un calcio all’inguine di Filson. Filson si piegò in due, con entrambe le mani ancora premute sulla faccia dilaniata e stravolta. Jackson strappò il secondo dardo di Filson alle dita inerti e poi fece ancora un movimento, con il dardo tenuto nel modo adatto per tagliare le finestre. Lasciò cadere l’arma, e restò con il pollice e l’indice destro stretti al braccio sinistro, sopra il gomito. L’amsir lo guardava, con il giavellotto alzato. Soltanto le sue trine si muovevano.

«Mi arrendo», disse Jackson, gli occhi su Filson raggomitolato a terra. Scalciò un po’ di sabbia verso il morto. «Il mio nome è Honor Red Jackson».

II

«Verrai con me, diavolo bagnato?», chiese l’amsir, con quella sua voce acuta, sconcertata. Si capiva che era fiero… ma si capiva che non aveva compreso nulla di quanto era accaduto. E anche questo andava bene, pensò Jackson.

«Per forza», disse Jackson. «Altrimenti, sarà stato tutto inutile. Mia madre è rimasta vedova due volte, e per niente».

«Tu sei ferito, diavolo. Perdi liquido. Vieni con me, presto».

«Ti seguo».

«Precedimi».

Corsero nella notte e nel deserto, chucka-chucka-chucka, chicka-sip, chicka-sip. L’amsir indicò la direzione a Jackson con lievi tocchi della punta del giavellotto, fino a quando raggiunsero il posto che l’amsir voleva, e l’uccellaccio coriaceo disse: «Fermati. Scava qui».

Jackson si accovacciò e fece del suo meglio, con una mano sola. Dopo aver scavato per la profondità di mezzo braccio, sentì sotto le dita qualcosa di duro e di arrotondato. Lo tirò fuori. Era una specie di vescica, due volte più larga di una testa umana. A toccarla sembrava fatta di cuoio verniciato a colla; sentiva le cuciture e un tappo arrotolato di minugia.

«È roba da respirare», disse l’amsir. «Presto ne avrai bisogno. La calotta di ferro ormai è quasi inutile. Scava di più. C’è una bottiglia di liquido e ci sono panni per dare calore. Ci sono toppe per la tua pelle».

Jackson li tirò fuori. La bottiglia d’acqua aveva le dimensioni della bolla d’amsir che portava sulla schiena, ma al tatto era come la vescica dell’ossigeno. Gli indumenti erano di una specie di pelle, conciata e morbida. Avevano usato il cuoio anche per le fasce. Avevano pensato a tutto, quando avevano nascosto lì il necessario per portarsi via un prigioniero; sapevano che difficilmente avrebbero potuto procurarsene uno senza ferite.

Jackson non riuscì ancora a estrarre il dardo, e perciò si legò il braccio, usando la mano sana e i denti per fare il nodo. L’amsir non si avvicinava a lui: si teneva alla distanza del giavellotto.

C’erano tracolle per la vescica d’ossigeno e per la bottiglia d’acqua. Jackson sganciò la sua bolla, la vuotò e la gettò via nel buio, prima di sostituirla con la bottiglia dell’amsir. Poi disse: «Pronto», e ricominciò a muoversi verso il punto dove, una volta, era stato il suo orizzonte.

Mentre camminavano, chiese: «Hai già portato altri prigionieri?».

«Tu sei il primo».

Senza dubbio abbiamo perso molte verginità, oggi, pensò Jackson. Cominciava ad avere un gran freddo. Dopo un po’ dovette estrarre il tubo di minugia incollato alla vescica d’ossigeno, infilarsene in bocca l’estremità e servirsene per respirare, stringendo il tubo fra due dita per non morire con i polmoni scoppiati, come gli aveva spiegato l’amsir.

Quando il Sole si levò, lo videro prima di tutti coloro che Jackson conosceva, perché erano in cima all’orlo del suo mondo.

Jackson era gelato. Doveva tenere le palpebre socchiuse. Sentiva un dolore fortissimo al naso e negli orecchi. Vide che i suoi indumenti erano fatti di pelli umane cucite insieme, e per un minuto si lasciò vincere dalla paura e dalla furia, ma poi ricordò la bolla d’amsir che aveva gettato via, e si disse che non aveva molta importanza. O forse l’aveva, ma non adesso.

«Affrettati. Morirai, qui, ma non manca molto prima di arrivare a una certa… comodità».

Jackson socchiuse gli occhi e guardò davanti a sé. E vide un altro grande mondo a forma di piatto. Ma questo era verdazzurro da un orlo all’altro: la terra era divisa da steccati leggeri come corde tese. C’erano alte case su palizzate, che luccicavano rosee e ocra e azzurre, giallovive e verdi, e gettavano riflessi nella luce del sole. Linee merlettate, fragili come gli steccati, andavano da una casa all’altra, ondeggiando in archi liberi, e univano l’intera città in una sorta di rete. E al centro di quel mondo, lontano, poté scorgere una Spina. Una Spina alta, massiccia, rilucente, non la cosa tozza, inclinata, striata di ruggine sotto la quale lui era nato. Una trama incantata di griglie s’intrecciava nell’aria intorno alla vetta. E dovunque, gli amsir volteggiavano, caprioleggiavano, giocavano nell’aria del primo mattino.

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