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Algis Budrys: Morte dell'utopia

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Algis Budrys Morte dell'utopia

Morte dell'utopia: краткое содержание, описание и аннотация

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Il pavimento del mondo è increspato come il fondale di un oceano. Il sole al tramonto inchiostra d’ombra violetta ogni increspatura. Le dune riempiono il mondo fino agli orli. E su questo pianeta che non è la Terra, un uomo insegue l’amsir, la grande bestia alata, per ucciderla. Perché gli uomini hanno sempre fatto cosi, da che il tempo è iniziato all’ombra della Spina. Ma per Honor White Jackson qualcosa cambia all’improvviso: l’amsir parla, e scaglia dardi. Forse, allora, la realtà non è soltanto quella di cui ha sempre parlato l’Anziano... Cosi inizia Morte dell’utopia, uno dei romanzi più originali, magici e inquietanti della fantascienza moderna, scritto da un maestro del genere, Algis Budrys.

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«Sì, bene, è proprio quello che avevo in mente», disse Jackson. Si alzò, si toccò di nuovo la spalla. «Sarà meglio che vada a farci dare un’occhiata. Non è il momento più adatto per restare storpiato».

III

Scese nella stanza del dottore. Il dottore era un Gray Honor che aveva da molto tempo una lunga cicatrice serpeggiante attraverso lo stomaco. Camminava sempre un po’ curvo, e teneva sempre le labbra strette. Ma finché poteva fungere da medico, l’Anziano avrebbe fatto in modo che gli venissero forniti il cibo e tutto il resto cui aveva diritto un Honor regolare. Quando entrò Jackson, borbottò e lo guardò con occhi profondi. «Il primo, eh?».

«Me la sono cavata bene, tutto considerato».

«Comunque te la sia cavata, Honor. Comunque. Niente fa soffrire di più che non essere più in grado di soffrire».

«La pensi così?». Sembrava che quella fosse una frase fatta dal dottore: ti tirava un po’ su, e tirava un po’ su se stesso. Bene, un Honor che non andava più a caccia aveva bisogno di tirarsi su.

«Sono sempre qui per rappezzarti meglio che posso, Honor», disse il dottore, e medicò la ferita con uno straccio pulito intinto nell’acqua bollente e tenuto con due asticelle d’osso.

«Grazie, dottore», disse Jackson, e se ne andò dopo che il dottore gli ebbe messo un paio di punti.

Si fermò davanti alla Spina, dove Harrison e Filson facevano ancora la guardia al suo amsir, come dovevano. Quando un Honor portava a casa il suo uccellaccio, l’Anziano sceglieva gli uomini più duri della Spina per fargli da sentinella. I casi in cui la gente cambiava idea circa quello che era il più duro erano quando un Honor decideva di poter dire a un tipo come Harrison o a Filson che la guardia al suo amsir la faceva da sé.

Jackson guardò prima uno poi l’altro. Filson gli rivolse un gran sorriso. O forse no. «Tua madre sarà fiera di te, oggi». Il fatto era che dalla sua espressione non si poteva capire come la pensava.

«Credo», disse Jackson. «Voi due Honor sarete al mio banchetto stasera, eh?». Indicò l’amsir con un cenno. «Potete prendere la parte che preferite», disse. «Ma forse sarà meglio che non vogliate tutti e due lo stesso pezzo, eh?». Si allontanò; e quelli, scelti come guardie dall’Anziano, non avrebbero potuto inseguirlo, se avessero voluto. Non si voltò a guardare il suo amsir. Cominciava a puzzare parecchio e, anche se certa gente la considerava una squisitezza, lui ne aveva avuto abbastanza. Ne aveva avuto più che abbastanza, e pensava che il merito fosse suo, non dell’amsir.

C’era gente di ogni genere, in giro; contadine che sbrigavano i loro lavori, e ragazzini, e il solito traffico. A tutti quelli che lo guardavano con l’aria di volergli parlare, Jackson si limitava a dire: «Vuoi venire al mio banchetto? Vieni». E continuò a camminare verso la casetta di cemento dove aveva trascorso quasi tutta la sua vita da solo.

C’era un’unica stanza, con un giaciglio in un angolo. C’erano pioli d’osso piantati nelle pareti, e reggevano vari oggetti. In parte era roba per ragazzini, roba che lui aveva fabbricato quando stava cominciando a imparare come si costruivano gli utensili. Giocattoli. Alcuni erano molto utili, ma lui era andato nel deserto con il suo materiale migliore, e l’aveva ancora addosso o in mano. Sedette a gambe incrociate nell’angolo dove lavorava di solito, con la luce scialba che entrava dal foglio di pergamena teso sulla finestra, dove forse c’era stata una copertura di tipo diverso quando era stata creata la capanna, e poi qualcuno l’aveva scartata; o, forse, quando era stato creato il mondo, chiunque lo avesse creato aveva dimenticato di fare una finestra.

Fissò di nuovo le punte dei dardi con la colla fresca di pelle di amsir che bolliva nel pentolino. Si guardò intorno. Andò al grande muro vuoto di fronte alla finestra. Il cemento era sporco di fuliggine e tutto striato, dove lui s’era esercitato a disegnare e aveva cancellato i disegni e s’era esercitato di nuovo fino a che s’era sentito soddisfatto.

Lì c’erano cose che aveva fatto, oh, mezza dozzina di anni prima, o tre quarti di dozzina d’anni prima. Il muro ne era quasi completamente invaso. C’erano immagini di bambini che correvano e gridavano e saltavano. C’erano immagini delle case e della Spina, e alcune di contadini che procedevano dietro gli aratri, con il deserto sullo sfondo. C’era qualcosa che sembrava una macchia nera di fuliggine e doveva essere la Spina contro lo sfondo delle stelle, di notte, ma non lo sembrava. Jackson aveva cercato di lasciare punti vuoti sul cemento, per fare le stelle, ma era impossibile fare le stelle in quel modo. Non l’aveva cancellato solo perché sarebbe diventato ancora più confuso.

C’era un ritratto di suo fratello. Black capitava lì, ogni tanto, e lo guardava e scuoteva la testa e diceva: «Sono io?». Be’, no, ma era un suo ritratto; lo raffigurava teso e agile, con tutto il peso su una gamba e il resto del corpo equilibrato in avanti, con un braccio proteso e il bastone da lancio in avanti, e si vedeva il modo in cui erano atteggiate le dita per tenerne l’estremità e il modo in cui i muscoli di quel braccio avevano appena terminato di scagliare il dardo e cambiavano assetto per tenere le dita serrate intorno al bastone. Si vedeva l’espressione del viso, che White Jackson aveva tanto faticato a rendere esattamente, e lontano, molto lontano, si vedeva qualcosa che si contorceva e che somigliava a un amsir per quanto era possibile disegnarlo, quando gli unici che avevi visto erano morti e non ne avevi mai osservato uno in corsa.

Secon Jackson girò lo sguardo sulla stanza. Non c’era nulla, lì, che avesse bisogno di portarsi via. Un Honor non portava mai via niente dalla sua vecchia abitazione, il Giorno della Rasatura; quando vivevi nella Spina, avevi a disposizione l’armeria della Spina, e non avevi bisogno che qualche ragazzino venisse a tenerti acceso il fuoco. Avevi bisogno solo di ciò che potevi portare in mano. Se un Honor era vissuto solo, dopo che se ne era andato arrivava la gente a portarsi via tutto quello che le serviva. Vedremo se porterete via quel muro, pensò Jackson: ma in realtà non gli importava affatto che lo facessero o no.

Andò accanto allo scaffale che aveva costruito accanto al fuoco per fabbricare gli strumenti, e guardò gli stecchi bruciati e i vasetti d’argilla colorata. Prese uno dei carboncini, e per un poco si aggirò qua e là tenendolo in mano. Aveva la sensazione che dovesse risultarne qualcosa, e guardò la finestra, che era pulita, con la luce che filtrava dalla pergamena traslucida e ben raschiata.

Si avvicinò, l’osservò, passandovi sopra i polpastrelli e il palmo della mano. Si appoggiò, esercitando una pressione che per poco non era sufficiente per sfondarla, e poi alzò la destra, tenendo il carboncino come se fosse l’impugnatura di un’arma, e guardò la linea nera che si sviluppava sulla pergamena.

Mosse la linea muovendo il proprio corpo. Quando la linea fu arrivata dal punto iniziale al punto terminale, ne tracciò un’altra; e quando ne ebbe abbastanza, cominciò a battere sulla pergamena con la punta consumata del carboncino, avventando in avanti il busto e spostando i piedi, fino a quando ebbe la sensazione di camminare, di camminare nella mezza luce su un terreno così accidentato da obbligarlo a posare con cautela i piedi. Ma ogni passo era quasi esattamente identico all’ultimo, come se camminando così potesse percorrere una lunga strada, e misurasse le proprie forze per capire quanto avrebbe impiegato ad arrivare. Vedeva la Spina da lontano, lontano sopra le dune, con il tramonto che trasformava il cielo, e vide le rocce vicine, con i lati rivolti verso di lui neri e grigi, e soltanto un orlo lucente, dove poteva scorgere l’ultimo Sole che colpiva le parti rivolte verso la Spina.

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