Frederik Pohl - Gli antimercanti dello spazio

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Sono passati trent’anni da quando Frederik Pohl inventò quei
che Kingsiey Amis nelle sue
mise al disopra dello stesso
di Orwell. Fu allora che dagli uffici di Madison Avenue le grandi compagnie pubblicitarie assunsero il controllo della Terra, ma fecero lo sbaglio di mandare un’astronave sul pianeta Venere. Oggi Venere è il rifugio dei refrattari e dei ribelli, il simbolo dell’anti-pubblicità, la bandiera dei nemici della produzione e del consumo. I rapporti tra i due pianeti si fanno ogni giorno più difficili. La situazione insomma è così tesa, che Frederik Pohl ha sentito la necessità di scrivere un nuovo romanzo sullo scottante argomento. E l’ha scritto.

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Lei mi voltò le spalle. — È questo l’amore — disse con la bocca contro il cuscino. — Ami qualcuno, e te ne verrà del male. Dopo che mio padre morì, usai tutto il mio amore per Venere… non volevo più amare un’altra persona!

Dopo un momento mi alzai,, malfermo. Lei non mi chiamò.

L’alba stava sorgendo; potevo anche cominciare un altro giorno schifoso. Misi a bollire un po’ del suo «caffè», guardando fuori dalla finestra la grande città nebbiosa, con il suo esercito di imbroglioni, e mi chiesi cosa ne stavo facendo della mia vita. Fisicamente la risposta era facile: la stavo rovinando. Il pallido riflesso del vetro mi mostrò quanto si fosse smagrita la mia faccia, quanto gli occhi fossero infossati e vuoti. Alle mie spalle Mitzi disse: — Guardati bene, Tenny. Sei uno straccio.

Be’, cominciavo ad essere stufo di sentirmelo dire. Mi voltai. Era seduta sul letto, e mi fissava. Non si era ancora messa le lenti a contatto. Dissi: — Mitzi, amore, mi dispiace…

— Sono stufa di sentirmelo dire! — scattò lei, come se mi avesse letto nel pensiero. — Ti dispiace, lo so. Sei l’essere più spiacente che abbia mai conosciuto, Tenny! Un giorno o l’altro mi morirai sopra!

Guardai fuori dalla finestra per vedere se qualcuno, nella vecchia sporca città, potesse fornirmi una risposta. Non c’era nessuno. Dal momento che quello che aveva detto era una possibilità molto reale, la cosa migliore pareva lasciar perdere.

Ma Mitzi non aveva intenzione di lasciar perdere. — Morirai a causa delle dannate pillole — disse furiosa, — e allora oltre alle mie dannate preoccupazioni e alla mia dannata paura, avrò anche un dannato dolore.

Mi mossi verso il letto per accarezzarle le spalle nude, e calmarla. Non si calmò. Mi guardò con lo sguardo rabbioso di un gatto in trappola.

L’anestesia si stava affievolendo.

Presi il flacone e ingoiai la mia pillola mattutina, pregando che questa volta mi tirasse un po’ su, invece di stordirmi soltanto, che mi desse la saggezza e la compassione per risponderle in un modo che alleviasse il suo dolore. Saggezza e compassione non vennero. Cercai di fare del mio meglio con nello che avevo a disposizione. Dissi: — Mitzi, forse sarà meglio che ci vestiamo e andiamo al lavoro, prima di dire qualcosa che non dovremmo. Siamo tutti e due un po’ stanchi; forse questa notte riusciremo a dormire un po’…

— Dormire! — sibilò lei. — Dormire! Come faccio a dormire quando ogni quarto d’ora mi sveglio e mi immagino che gli scagnozzi del Dipartimento per la Moralità Commerciale stanno buttando giù la porta?

Ebbi un brivido; avevo gli stessi incubi; pensavo sempre alla lobotomia. Con voce malferma dissi: — Non ne vale la pena, Mitzi? Ogni giorno ci conosciamo meglio.

— Ti conosco anche troppo, Tenny! Sei un drogato! Sei un relitto! Non sei neanche bravo a letto…

E qui si fermò, perché sapeva bene quanto me cosa voleva dire questo. Era una sentenza di morte. Dopo di quello, non c’era altro da dire, se non: «Fra noi è finita». E date le particolari circostanze della nostra relazione, c’era un solo modo per finirla.

Attesi le parole successive, che dovevano essere: «Esci di qui! Esci dalla mia vita!». Dopo che mi avesse buttato fuori, pensai vagamente, la cosa migliore da fare era filare dritto all’aeroporto, volare fin dove potevano portarmi i miei soldi, e perdermi fra la massa ribollente dei consumatori di Los Angeles, di Dallas, o magari ancora più lontano. Forse Des Haseldyne non mi avrebbe trovato. Potevo starmene nascosto per qualche mese, fino a quando il colpo riusciva o non riusciva. Dopo di che, le cose si sarebbero messe ancora peggio: chiunque vinceva, avrebbe voluto certamente regolare i conti con me…

Notai che non aveva detto quelle parole. Era seduta immobile, ascoltando dei suoni lievi che arrivavano dalla porta. — Oh mio Dio! — disse disperatamente, — sono già qui!

Era vero. C’era qualcuno alla porta dell’appartamento di Mitzi. Non la stavano abbattendo. La stavano aprendo con una chiave. Perciò non erano le squadre della Moralità. Erano tre persone. Una di esse era una donna che non avevo mai visto prima. Gli altri due, erano uomini che non mi sarei mai immaginato, per tutto l’oro del mondo, che potessero entrare nell’appartamento di Mitzi in quella maniera: Val Dambois e il Vecchio.

Quando li vidi, io rimasi solo sorpreso. Loro furono esterrefatti, e anche furibondi. — Maledizione, Mitzi! — sbraitò Dambois, — questo è troppo! Cosa ci fa qui quel mokomane.

Avrei potuto dirgli che non ero u un mokomane, esattamente. Non ci provai neanche. Stavo usando tutte le mie facoltà mentali per capire cosa significasse la loro presenza lì. In ogni modo, non avrei avuto il tempo di dirglielo, perché il Vecchio alzò una mano. La sua faccia era come granito. — Tu, Val — ordinò. — Rimani cui e tienilo d’occhio. Voi altri venite con me.

Li guardai uscire: Mitzi, il Vecchio e la donna: un tipo piccoletto, tozzo, e quello che aveva mormorato, vedendomi, pareva avesse un accento. — È della RussCorp, vero? — chiesi a Dambois, e lui mi diede la risposta che aspettavo. Ringhiò:

— Zitto!

Annuii. Non aveva bisogno di confermarmelo. Il semplice fatto che lui e il Vecchio si fossero infilati nell’appartamento di Mitzi in quella maniera, mi aveva detto tutto quello che avevo bisogno di sapere. La cospirazione era molto più grossa di quanto Mitzi avesse ammesso. E molto più antica. Come aveva fatto i soldi il Vecchio? Con una «lotteria» che aveva vinto non si sa come. E Mitzi come aveva fatto i suoi? Grazie al pagamento dei danni subiti in un «incidente». E Dambois? Da «profitti commerciali». Tutti da Venere. Tutti incontrollabili dalla Terra.

Tutti utilizzati per lo stesso scopo.

E se la RussCorp era implicata, il piano non si limitava all’America. Dovevo dedurne che aveva implicazioni mondiali. Dovevo dedurne che per ogni frammento di informazione che Mitzi mi aveva fornito con tanta riluttanza, c’era dietro una montagna intera. — Puoi anche raccontarmi qualcosa — osservai rivolto a Dambois. — Dopo tutto, finora non ho detto una parola.

E naturalmente lui rispose solo: — Sta’ zitto.

— Ma certo — dissi annuendo. — Be’, ti dispiace se prendo del caffè?

— Non muoverti — scattò lui, poi ci ripensò, e disse con riluttanza:

— Te lo prendo io, ma tu non muoverti. — Andò in cucina, ma senza staccarmi gli occhi di dosso. Sa il cielo cosa si aspettava. Io rimasi immobile, come mi era stato ordinato, ascoltando le voci che giungevano dalla camera da letto, in una discussione accalorata. Non riuscivo a distinguere le parole. D’altra parte, non ne avevo bisogno. Potevo immaginarmi benissimo di cosa stessero discutendo.

Quando uscirono, scrutai le loro facce. Erano tutte serie. Quella di Mitzi era impenetrabile. — Siamo giunti a una decisione — disse cupamente. — Siedi e bevi il tuo caffè, e te la dirò.

Bene, era il primo raggio di speranza in un cielo nuvoloso. Ascoltai con attenzione. In primo luogo — disse lei lentamente, — è stata colpa mia. Avrei dovuto farti uscire un’ora fa. Lo sapevo che c’era una riunione.

Annuii, per far vedere che ascoltavo, cercando di decifrare le loro espressioni. Nessuna mi fornì qualche indizio. — Sì? — dissi vivacemente.

— Perciò sarebbe sbagliato, moralmente sbagliato — disse lei, pronunciando ogni parola a un certo intervallo dal] altra, come se le soppesasse una ad una, — affermare che tu abbia qualche colpa. — Fece una pausa, come se si aspettasse da me una risposta.

— Grazie — dissi nervosamente, sorseggiando il caffè. Ma lei non continuò. Si limitò a guardarmi, e cosa strana, l’espressione della sua faccia non cambiò, ma la faccia sì. Divenne indistinta. I tratti si mescolarono. L’intera stanza si oscurò e parve restringersi… Mi ci volle tutto quel tempo per accorgermi che il caffè aveva un leggero sapore strano.

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