D’altra parte, dovevo ammettere in umiltà, chi ero io, drogato e disgraziato, per emettere giudizi? I miei princìpi erano stati talmente scossi e sbatacchiati negli ultimi mesi, che non potevo illudermi di sapere niente. Annaspavo… e Mitzi pareva così sicura di sé…
Cominciai a dire cautamente: — Senti Mitzi, dal momento che alcuni dei nostri costumi terrestri vi sono così estranei…
— Non estranei! — esplose lei. — Degenerati! Criminali. Malati !
Allargai le braccia, arrendendomi… specialmente dal momento che in quella discussione mi sembrava di far la parte dell’avvocato del diavolo. — Il problema è: come fate ad essere sicuri che funzionerà?
Lei disse con forza: — Ci credi dei selvaggi ignoranti? È stato tutto calcolato e simulato centinaia di volte. Al progetto hanno lavorato le menti migliori di Venere: psicologi, antropologi, politologi, economisti e strateghi… Al diavolo — finì, — no. Non sappiamo se funzionerà. Ma è l’unica cosa fra quelle proposte che potrebbe funzionare.
Rimasi lì qualche momento a fissare la mia signora di ottone. E così, adesso sapevo per cosa lavoravo: un’immensa e mortale cospirazione, pianificata da cervelloni e portata avanti da fanatici. Era una farsa ridicola e senza speranze, tranne che non era poi così divertente, quando uno cominciava a pensare alle implicazioni. Tradimento, Rottura di Controllo, Pratiche Commerciali Sleali. Se andava male, il meglio che potevo sperare era di tornare alla Colonia Penale Polare, questa volta dalla parte sbagliata delle sbarre.
L’espressione sulla faccia di Mitzi doveva essere quale a quella che aveva avuto ai suoi tempi Giovanna d’Arco. Sembrava quasi risplendere, gli occhi alzati al cielo, il suo color bronzo trasformato in puro, caldo oro, i due solchi impressi profondamente fra gli occhi.
Allungai una mano e li toccai. — Chirurgia plastica, immagino — dissi.
Lei mi guardò scura, con un vero cipiglio che si sovrapponeva a quello falso, e strinse le labbra. — Diavolo, Tenny — disse, — si capisce che ho dovuto fare un po’ di chirurgia. Assomigliavo solo un po’ a Mitsui Ku.
— Già — dissi, annuendo. — Lo immaginavo. L’idea era di ucciderci tutti e due alla stazione del tram, vero? Poi avreste annunciato che grazie a uno sforzo eccezionale e all’abilità dei chirurghi venusiani, eravate riusciti a salvare almeno Mitzi. Solo che saresti stata tu.
Lei disse duramente: — Qualcosa del genere.
— Già. A proposito, qual è il tuo vero nome?
— Maledizione, Tenny, che differenza fa? — Rimase in silenzio qualche momento, poi disse: — Sophie Yamaguchi se proprio ti interessa.
— Sophie Yamaguchi — ripetei, assaporando il nome. Non aveva il sapore giusto. — Credo che continuerò a chiamarti Mitzi, se non ti dispiace.
— Se mi dispiace? Io sono Mitzi Ku! Ho passato sette mesi a imitarla, guardando i nastri che avevamo girato, copiando il suo modo di fare, imparando a memoria la sua vita. Ho ingannato perfino te, no? Adesso mi ricordo appena di Sophia Yamaguchi. È come se Sophie fosse morta, invece di…
Si fermò. Io dissi: — Allora Mitzi è morta.
Di malavoglia, la falsa Mitzi disse: — Sì, è morta. Ma non è stata uccisa dal tram. E credimi, Tenn, ne sono stata felice! Non siamo assassini. Non vogliamo fare del male a nessuno, senza necessità. P — solo che le condizioni oggettive… Comunque, l’hanno portata via per… la riabilitazione.
— Ah. — Annuii. — L’Anti-Oasi.
— Certo, è stata portata là! E ci sarebbe stata anche bene. O si sarebbe convertita al nostro modo di pensare, o almeno sarebbe rimasta viva, e nascosta. Ma ha cercato di scappare. È rimasta senza ossigeno, o qualcosa del genere, nel deserto. Tenny — disse con forza, — non è stata colpa di nessuno.
— E chi ha detto niente? Ma per tornare a quello che volete che faccia…
Quando si arriva al dunque, immagino che mai niente sia colpa di qualcuno, o almeno nessuno lo pensa. Uno deve fare quello che deve.
Eppure, tornando a Bensonhurst quella sera, guardavo le facce stanche e tristi dei pendolari, aggrappati alle maniglie, mentre le pareti sporche del tunnel scorrevano via veloci, il vento carico di smog ci soffiava in faccia, le luci saettavano via. E mi chiedevo: voglio davvero rendere ancora più dura la vita di questi consumatori? Mandare a pezzi l’economia terrestre non era qualcosa di astratto; voleva dire cose concrete, una concreta perdita del posto per un impiegato o un poliziotto. Una concreta perdita di grado per un pubblicitario. Un concreto taglio delle risorse alimentari per la famiglia con cui vivevo. Sì, è vero, adesso pensavo che la Terra sbagliava cercando di sabotare e mettere in ginocchio Venere, ed era giusto unire le mie forze con Mitzi, cioè la falsa Mitzi, per porre fine a quell’ingiustizia. Ma quale grado di ingiustizia era appropriato per raggiungere quel giusto fine?
A tutti i miei guai, le mie preoccupazioni, i miei dilemmi, non volevo aggiungere l’unica cosa di cui finora non avessi molto sofferto: il senso di colpa.
E tuttavia…
Tuttavia, feci il lavoro che Mitzi mi aveva assegnato. E lo feci maledettamente bene, anche. — Quello che devi fare, Tenny — mi aveva ordinato, — è eleggere. Non cercare niente di complicato. Non cercare di mettere dei princìpi nella campagna. Usa solo tutti i tuoi dannati trucchi da imbroglione per far vincere i nostri candidati.
Bene, Mitzi. Usai i miei dannati trucchi, cercando di non sentirmi dannato. Una delle persone che aveva portato via alla G.S.&T. era il mio vecchio tirapiedi, Dixmeister; gli era stato affidato il mio lavoro, e adesso, con cupa rassegnazione, se lo vide togliere. Si consolò quando gli dissi che questa volta avrebbe avuto più autorità; gli lasciai la preselezione dei candidati, e gli affidai anche la scelta definitiva. Non gli dissi che lo tenevo d’occhio mediante Tv a circuito chiuso, dal mio ufficio. Ma non era necessario: lasciato da solo, e avendo avuto il beneficio del mio addestramento, il ragazzo se la cavava egregiamente.
E io avevo cose più importanti da fare. Volevo degli slogan. Combinazioni di parole che potevano o non potevano significare qualcosa (questo non era importante) ma che fossero brevi e facili da ricordare. Misi al lavoro il Dipartimento Ricerche, per trovarmi gli slogan e le parole d’ordine utilizzate nelle campagne politiche, e ben presto il mio monitor ne venne inondato. New Deal. Maggioranza silenziosa. Nuova frontiera. Potere al popolo. Togliamo il peso del governo dalle spalle degli Americani. Giù le mani da Cuba. Io aiuto Israele. Nella pubblicità la verità… No, quello non suonava giusto. Guerra alla povertà . Questo andava meglio, anche se quella guerra era stata persa. Ce n’erano a centinaia. Naturalmente la maggioranza non aveva alcun riferimento con il mondo in cui vivevamo, ma come dicevo ai miei sottoposti, non è importante quello che dice uno slogan, ma quello che la gente ci legge, e che tocca il loro subconscio. Era un lavoro lungo e faticoso, reso più complicato dal fatto che avevo perso qualcosa. Quello che avevo perso, era la sensazione che vincere fosse un fine in se stesso. In questo caso lo era… me lo aveva detto Mitzi. Ma io non lo sentivo più.
Comunque, trovai delle vere perle. Chiamai Dixmeister a vederle, scritte in bellissima calligrafia svolazzante dalla Sezione Artistica, con tema musicale e sfondo multisensoriale forniti dalla Produzione. Lui guardò a bocca spalancata il monitor, perplesso.
— Giù le mani da Hyperion. Veramente superbo, signor Tarb — disse automaticamente. Poi, dopo averci pensato: — Ma non sarebbe il contrario? Voglio dire, noi non vogliamo mollare Hyperion come mercato, no?
— Non sono le nostre mani, Dixmeister — dissi pazientemente. — Sono quelle dei Venusiani. Vogliamo che i Venusiani non interferiscano.
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