In quel momento, non avrei mai voluto aver scritto quella lettera di suicidio. Lo desiderai con tutto il mio essere, fino a quando i miei desideri smisero di funzionare, e così pure i miei occhi, e le mie orecchie, e così pure, nel mezzo di un urlo silenzioso di terrore, con cui invocavo ancora una possibilità, pregavo di vivere un altro giorno, il mio cervello.
Il mondo era sparito, mi aveva lasciato.
Anche allora Mitzi doveva aver combattuto aspramente per me. Quello che mi avevano infilato nel caffè non era stato letale, dopo tutto. Mi aveva solo fatto addormentare profondamente.
Nel sogno qualcuno gridò: «Prima chiamata, fra cinque minuti!», e io mi svegliai.
Non ero più nell’appartamento di Mitzi. Ero in una piccola cella disadorna, con una porta e una finestra, e fuori era buio.
Una volta convintomi del fatto strano di essere vivo, mi guardai attorno. Non ero legato, come scoprii con mia sorpresa, né pareva che fossi stato picchiato, di recente. Ero sdraiato piuttosto comodamente su un lettino, con un cuscino sotto la testa, e una leggera coperta sul mio corpo mezzo spogliato. Vicino al letto c’era un tavolo. Sul tavolo c’era un piatto con dei cereali, un bicchiere di Vitafrut, e fra i due una busta del tipo utilizzato per i messaggi di Agenzia segretissimi. L’aprii e la lessi in fretta, prima che scadesse il tempo. Diceva:
Caro Tenny, non puoi più continuare a vivere da drogato. Se sopravviverai alla disintossicazione, ci rivedremo. Buona fortuna!
Non c’era alcuna firma, ma un P.S.:
Abbiamo molti amici al centro che ci diranno come te la cavi. Devo dirti che sono autorizzati ad assumere iniziative autonome.
Rimuginai nella mente le parole «iniziative autonome»… e ci misi un momento di troppo, perché la carta prese fuoco e mi scottò le dita. Lasciai cadere le braci in fretta e furia e mi guardai attorno.
Non c’era molto da vedere. La porta era chiusa a chiave. La finestra era di vetro infrangibile, sigillata. Evidentemente quel centro non voleva che io abbandonassi la disintossicazione. La cosa aveva un aspetto minaccioso, e non c’erano più le pillole verdi ad attutire la sensazione. Comunque, c’era da mangiare e io avevo una gran fame. Evidentemente ero rimasto addormentato a lungo. Mentre allungavo una mano verso il Vitafrut, si scatenò l’inferno. La voce che urlava nel mio sogno non era un sogno. Adesso urlò: — Ultima chiamata! Tutti fuori! — E non c’era solo la voce. Era accompagnata da sirene e campane, per essere sicuri che avessi sentito; la serratura della porta si aprì, e nel corridoio si sentì un rumore di piedi in corsa, accompagnato da colpi battuti su ogni porta. — Fuori! — gridò un individuo in carne ed ossa, guardandomi torvo e facendomi segno col dito.
Non vidi ragione per protestare, dal momento che era almeno due misure più grosso di Des Haseldyne.
Indossava una tuta da ginnastica blu. E così pure una dozzina di altri individui, quelli che urlavano. Avevo visto un paio di short, e li avevo afferrati all’ultimo minuto, sentendomi terribilmente nudo… ma non solo. Oltre agli aguzzini in tuta, c’erano una ventina di altri esseri umani, che uscivano dall’edificio, tutti svestiti quanto me, e con un’aria altrettanto infelice. Ci spinsero fuori, nell’aria umida e piena di smog, ancora buia, anche se si scorgeva uno scoraggiante chiarore rossastro in un angolo del cielo, e noi ci stringemmo 1 uno all’altro, aspettando che ci dicessero cosa dovevamo fare. Era, come sotto le armi pensai.
No, mi sbagliavo. Era molto peggio che sotto le armi. L’addestramento militare almeno inizia con individui in discreta salute. Fra i miei compagni, non c’era nessuno che lo fosse anche lontanamente. Ce n’era di tutte le forme e dimensioni, tranne che buoni. C’era una donna che doveva pesare più di un quintale e mezzo, e un paio d’altri, di entrambi i sessi, che forse pesavano meno, ma in compenso erano molto più piccoli, e straripavano da sopra le cinture. C’erano degli spaventapasseri più magri di me e almeno altrettanto consumati. C’erano uomini e donne piuttosto anziani, che non parevano del tutto disumani, a parte il fatto che avevano dei tic che non riuscivano a controllare: portavano in continuazione la mano alla bocca, nei gesti ripetuti all’infinito del fumare, del mangiare, del bere. Ma non avevano niente in mano. Ah già, pioveva.
I guardiani ci spinsero in un gruppo disordinato in mezzo a un quadrato di cemento, circondato da bassi edifici simili a baracche militari. Sulla porta dell’edificio da cui eravamo appena usciti, c’era una scritta:
CENTRO INTOSSICAZIONI ACUTE
DIVISIONE TERAPIA INTENSIVA
Uno degli istruttori soffiò in un fischietto, vicino al mio orecchio destro. Quando il suono smise di rimbalzarmi nel cranio, vidi che un’amazzone, con la stessa tuta degli altri, ma fornita di una striscia d’oro sulla giacca, camminava impettita verso di noi. Ci guardava con disgusto. — Mio Dio — disse rivolta al pazzo con il fischietto, — ogni mese sono peggio. E va bene. Voi! — sbraitò, salendo su una cassetta per vederci meglio, e sottolineando i suoi ordini con un colpo del suo fischietto che quasi mi staccò la testa e la mandò a rotolare verso le baracche. — Fate attenzione! Vedete quel cartello? «Divisione terapia intensiva.» La parola più importante è intensiva. Noi ci sforzeremo intensamente. Voi vi sforzerete intensamente, ve lo garantisco io. Ma malgrado tutti i nostri sforzi, di solito non abbiamo successo. Basta leggere le statistiche. Su dieci di voi, quattro usciranno puliti… e ci ricascheranno entro un mese. Tre svilupperanno sintomi fisici o psiconeurotici incapacitanti, e avranno bisogno di un trattamento prolungato. Prolungato fino alla fine della loro vita, che di solito è molto breve. E due di voi non arriveranno alla fine della cura. — Fece un sorriso gentile… lei almeno doveva pensare che fosse gentile. Erano passate almeno sei ore di troppo senza che prendessi una pillola, e in quel momento neanche la Madonna mi sarebbe sembrata gentile.
Un altro devastante fischio. Aveva fatto un secondo di pausa, e non voleva che ci mettessimo a sognare ad occhi aperti. — Il vostro trattamento — disse, — avverrà in due fasi. La prima è quella spiacevole. Vi riduciamo la dose al minimo, vi nutriamo per accrescere la resistenza, vi alleniamo per sviluppare il tono muscolare, vi insegniamo nuovi comportamenti per spezzare le abitudini dei movimenti che rinforzano la dipendenza. E qualche altra cosa. E si comincia subito. Stendetevi a pancia in giù, tutti, e fate cinquanta piegamenti sulle braccia. Poi vi spogliate e andate a fare la doccia!
Cinquanta piegamenti! Ci guardammo l’un l’altro increduli, nell’alba grigia e scura. Non avevo mai fatto cinquanta piegamenti in tutta la mia vita, e non credevo che fosse possibile farli in una volta sola… finché non scoprii che non si poteva fare la doccia, non si poteva mangiare, non si poteva lasciare il cortile… e soprattutto non ci sarebbero state pillole finché non li avessi fatti tutti e cinquanta.
Divenne possibile, perfino per quelli che pesavano un quintale e mezzo.
La signora non aveva mentito. La Fase Uno era spiacevole, non c’erano dubbi. L’unico modo in cui riuscii a superare ognuna di quelle miserevoli ore, fu di pensare alla benedetta pillola verde che sarebbe arrivata alla fine del giorno. Non mi portarono via le pillole; solo mi costrinsero a guadagnarmele. E la cosa orribile consisteva in questo: che più miglioravo nel guadagnarmele, meno ne ricevevo; il terzo giorno cominciarono a togliermi un pezzettino di pillola; il sesto le tagliarono a metà. Tre di noi avevano una dipendenza da pillole in seguito a intossicazione da Mokie. Gli altri avevano ogni altra intossicazione immaginabile. La donna grassa, che scoprii si chiamava Marie, era cibo-dipendente; sbuffava come un mantice nella corsa a ostacoli, ma correva sempre, perché non c’era altro modo di arrivare alla sala mensa. Un ometto dai capelli scuri, di nome Jimmy Paleologue, era stato un tecnico campbelliano, prestato dalla sua Agenzia all’esercito, per insegnare la civiltà ai Maori della Nuova Zelanda. Era troppo esperto per farsi prendere dagli stimoli campbelliani, ma era inesplicabilmente caduto nella trappola di un campione gratuito di Caffeissimo. — Era collegato a una lotteria — spiegò timidamente, mentre stavamo distesi sul terreno fangoso, ansimando fra i piegamenti sulle ginocchia e l’arrampicata sulla fune. — Il primo premio era un appartamento di tre stanze, e io pensavo di sposarmi… — Mentre si trascinava tremante lungo l’ultimo tratto dei cinque chilometri di corsa, aveva ormai smesso di pensarci.
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