Frederik Pohl - Gli antimercanti dello spazio

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Sono passati trent’anni da quando Frederik Pohl inventò quei
che Kingsiey Amis nelle sue
mise al disopra dello stesso
di Orwell. Fu allora che dagli uffici di Madison Avenue le grandi compagnie pubblicitarie assunsero il controllo della Terra, ma fecero lo sbaglio di mandare un’astronave sul pianeta Venere. Oggi Venere è il rifugio dei refrattari e dei ribelli, il simbolo dell’anti-pubblicità, la bandiera dei nemici della produzione e del consumo. I rapporti tra i due pianeti si fanno ogni giorno più difficili. La situazione insomma è così tesa, che Frederik Pohl ha sentito la necessità di scrivere un nuovo romanzo sullo scottante argomento. E l’ha scritto.

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Il centro si trovava in un sobborgo, chiamato Rochester, e una volta era stato il campus di una università. Gli edifici avevano ancora i nomi incisi sulle pareti di cemento: Dipartimento di Psicologia, Sezione Economia, Fisica Applicata, e così via. C’era una massa di liquido fangoso a un’estremità del terreno e per quel che riguardava l’ambiente fisico, quella era la parte peggiore. Lo chiamavano «Lago Ontario». Quando il vento soffiava da nord, la puzza faceva svenire. Alcuni dei vecchi edifici fungevano da dormitori, altri da sale da terapia, da mensa, da uffici. Ma ce n’erano un paio ai confini del campus a cui non eravamo ammessi. Non erano disabitati. Di tanto in tanto vi scorgevamo delle creature miserabili come noi, che venivano fatte entrare e uscire, ma chiunque fossero, non potevamo mescolarci a loro. — Tenny — ansimò Marie, appoggiandosi a me mentre passavamo vicino a loro, diretti verso la nostra terapia pomeridiana. — Cosa credi che facciano là dentro? — Una donna in tuta da ginnastica rosa (anche i loro istruttori erano diversi dai nostri) si sporse dalla porta di uno de li edifici, e gettò qualcosa nel buone della spazzatura, guardandoci torva. Quando fu entrata, tirai per un braccio Marie.

— Andiamo a dare un’occhiata — dissi, guardandomi attorno per vedere se non c’erano tute blu nei dintorni. Non pensavo che potessero esserci delle pillole verdi, nel bidone, e sono sicuro che Marie non si aspettava di trovarci qualche boccone di cibo. Con nostro disappunto, era proprio così. Trovammo solo un paio di stivaletti dorati e una pistola giocattolo, rotta, con l’impugnatura di finto avorio. Non volevano dire niente per me, ma Marie emise un gridolino.

— Oh, mio Dio, Tenny, sono oggetti da collezionismo! Mia sorella ne aveva. Questi sono una Replica Autentica in Miniatura delle Scarpe da Bambino dei Gangster del Ventesimo Secolo in Bronzo…, queste sono di Bugs Moran, credo… E sono sicura che la pistola appartiene alla Collezione di Armi da Fuoco Intagliate della Frontiera. Là dentro fanno la Terapia di Rigetto… Prima ti fanno smettere di averne bisogno, poi te le fanno odiare! Forse è questa la Fase Due?

A questo punto l’istruttore urlò alle nostre spalle: — Bene, voi due fannulloni, se avete tempo di starvene lì a chiacchierare, avrete anche tempo per fare un po’ di piegamenti supplementari. Diciamo cinquanta! E muovetevi, perché sapete cosa succede se arrivate tardi alla terapia!

Lo sapevamo.

Quando non facevo piegamenti, non correvo, non saltavo, non mi facevo riaggiustare la testa, mangiavo… ogni dieci minuti, a quanto pareva. Cibo semplice e genuino, come Pane del Fornaio, e Manzovero, e Succobuono, e non c’era da discutere: ripulivo il piatto ogni volta, altrimenti erano cinquanta piegamenti sulle braccia per dessert. Non che cinquanta piegamenti in più facessero molta differenza. Ne facevo quattro o cinquecento al giorno, più quelli sulle ginocchia e quelli per toccarsi la punta dei piedi, e quaranta vasche al giorno nella piscina. C’era posto solo per tre alla volta, e facevano sempre in modo che fossimo tutti e tre più o meno alla pari… Provate a indovinare cosa succedeva a chi arrivava ultimo?

Avevamo cominciato in quaranta, poi scendemmo a trentuno, a venticinque, a ventidue… Quella che mi colpì più duramente fu Marie. Era riuscita a perdere una ventina di chili, e adesso riusciva a mangiare i suoi pasti (tavolette di vitamine e proteine, e poche anche di quelle) senza piagnucolare, quando il dodicesimo giorno, mentre si arrampicava sulla rete, spalancò la bocca, annaspò e rotolò a terra. Era morta. Non morì del tutto, perché tirarono fuori l’unità di rianimazione cardiaca, e la spedirono via su un’ambulanza pneumatica, ma era troppo morta per tornare nel nostro gruppo.

E per tutto il tempo, i nervi mi strisciavano sotto la pelle, e quello che desideravo di più al mondo era dare una randellata in testa all’infermiere, portargli via le chiavi, e aprire l’armadietto dove tenevano le pillole. Ma non lo feci.

La cosa strana è che dopo due settimane, con la razione ridotta a un quarto di pillola, cominciai a sentirmi leggermente meglio. Non bene. Solo meno peggio, meno teso, meno ossessionato dalla pillola. — È una falsa sensazione di benessere — ansimò Paleologue quando glielo dissi, appena usciti alla piscina, in attesa di partire per la corsa di tre chilometri. — Capitano questi momenti di rilassamento, ma non vogliono dire niente. Ho già visto gente con la sindrome di Campbell…

Gli risi in faccia. Certe cose poteva raccontarle a qualcun altro: era il mio corpo, no? Potevo perfino trovare il tempo per pensare qualcosa di diverso dalle pillole verdi. Una volta arrivai a mettermi in fila per l’unico telefono pubblico, con tutte le intenzioni di chiamare Mitzi. E ci sarei anche riuscito, se non mi avesse preso uno di quegli attacchi di nausea, che mi costrinse a correre ai cessi; e dopo non ci fu più tempo per ricominciare la fila da capo.

Altre due settimane passarono, e arrivò la fine della Fase Uno, quella spiacevole.

Povero ingenuo. Non avevo chiesto ai nostri istruttori come sarebbe stata la Fase Due. Avevo pensato che se la Uno era definita spiacevole , la Due sarebbe stata almeno decente.

Questo prima di iniziare la terapia di rigetto e la disintossicazione finale, e di scoprire che la Fase Due certamente non si poteva chiamare semplicemente spiacevole . Era molto di più che spiacevole. Era un inferno.

Credo di non voler più parlare della Fase Due, perché ogni volta che cerco di farlo comincio a tremare. Però la superai. Mentre i veleni mi uscivano dal corpo, pareva che mi uscissero anche dalla mente. Quando il direttore mi strinse la mano, e mi rispedì nel mondo, questa volta coscientemente, mi sentivo… non ancora bene: più triste che bene, e più arrabbiato che triste. Ma forse, per la prima volta nella mia vita, razionale .

Il vero Tennison Tarb

1

Nella Fase Due si perde il conto del tempo, perché ogni giorno è brutto come quello successivo. Quando tornai in città, scoprii con sorpresa che era ancora estate, anche se gli alberi nel Central Park stavano cominciando a perdere le foglie. Il sudore correva lungo la schiena della mia pedalatrice di taxi. Il frastuono del traffico, fatto di grida, cigolii e scricchiolii, era punteggiato dai suoi colpi di tosse, secchi e catarrosi. C’era un allarme-smog, naturalmente. E lei non portava filtro sulla faccia, perché con un filtro non si riesce a inspirare abbastanza aria per mantenere il ritmo del traffico intenso. Mentre da Circle prendevamo per Broadway, un furgone bancario corazzato, con sei pedalatori, ci tagliò la strada; la pedalatrice sterzò bruscamente per evitarlo, e scivolò sulla strada viscida. Per un momento pensai che il taxi dovesse rovesciarsi. Lei si voltò a guardarmi con la faccia spaventata. — Scusate, signore — disse ansimando. — Con quelli lì non c’è niente da fare!

— Non importa — dissi. — Anzi, è una giornata così bella che farò il resto della strada a piedi. — Naturalmente lei mi guardò come se fossi matto, specialmente quando le dissi di seguirmi, nel caso avessi cambiato idea. Quando arrivammo all’edificio della Haseldyne & Ku, e la pagai con una grossa mancia, ormai si era convinta che fossi matto. Se ne andò in tutta fretta. Ma il sudore le si era asciugato sulla schiena,en on tossiva quasi più.

Non avevo mai visto una cosa del genere prima.

Salutai con dei cenni i colleghi che riconobbi, entrando. Mi guardarono con vari gradi di stupore, ma io ero troppo occupato a stupirmi di me stesso. Qualcosa era cambiato in me, al Centro Disintossicazione. Ero tornato con qualcosa di più dei buchi per le iniezioni di vitamine e il disgusto per le pillole verdi. Ero tornato con nuovi accessori nella testa. Cosa fossero di preciso non lo sapevo ancora, ma uno di questi sembrava rispondere al nome di «coscienza».

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