Il cuore mi si gonfiò in petto. Con voce rauca dissi: — Oh, Mitzi! — E allungai una mano per toccarla. Ma non la toccai. Con calma, ma abbastanza in fretta perché la mia mano non arrivasse a sfiorarla, lei si alzò e fece un passo indietro. — Rimani fermo lì, Tenny — mi ordinò, e sparì nella camera da letto. La porta si chiuse alle sue spalle. Dopo un momento sentii scorrere la doccia. Rimasi lì, studiando le bizzarre idee di Mitzi a proposito di arredamento, cercando di capire cosa ci si potesse trovare di bello nel quadro di Venere appeso alla parete… cercando di dare un senso a quello che lei aveva detto.
Mitzi mi lasciò un sacco di tempo per pensare. Ma non ci capii niente lo stesso, e quando uscì, perfettamente vestita, coni capelli pettinati, la faccia composta, era una persona completamente diversa. — Tenny — disse subito,stammi a sentire. Credo di essere matta, e sono sicura che avrò dei guai. Comunque, ti dirò tre cose.
«Primo: non mi interessano le tue idee per nuovi prodotti o i tuoi imbrogli sui Consumasti Anonimi. La nostra Agenzia si occupa di altre cose.
«Secondo: in questo momento non posso fare niente per te. Probabilmente non dovrei, anche se potessi. Probabilmente fra un giorno o due, ricomincerò a ragionare, e allora non ti rivedrò più. In questo momento non c’è posto per un altro pubblicitario nei nostri uffici… e non c’è neppure tempo nella mia vita.
«Terzo… — esitò, poi alzò le spalle. — Terzo: potrebbe esserci qualcosa di cui potremmo parlare, fra un po’ di tempo. Intangibili. Politica. Un progetto speciale. Ma non parlarne con nessuno. Non dovrei neppure dirti che esiste. Forse non esisterà mai. A meno che non riusciamo a mettere insieme un sacco di cose… Abbiamo perfino bisogno di un posto per prepararlo, con discrezione, perché è davvero segreto. E anche allora potremmo decidere che il momento non è maturo, e che non possiamo cominciare. Capisci quanto è aleatorio tutto quanto? Ma se andrà in porto, allora forse, solo forse, potrei trovare un posto per te. Chiamami fra una settimana.»
Avanzò svelta verso di me. Con il cuore in gola, allargai le braccia, ma lei mi schivò, mi diede un casto bacetto sulla guancia e andò verso la porta. — Non uscire con me — ordinò. — Aspetta dieci minuti, poi vattene.
E sparì.
Anche se le pastiglie verdi sembravano avere degli effetti chiarificatori sulle mie idee, non servirono a chiarirmi le idee su Mitzi. Ripensai ad ogni parola della nostra conversazione, rigirandomi sul materassino, mentre i bambini frignavano e i genitori russavano o litigavano a bassa voce fra di loro, nella piccola stanza. Non aveva senso. Non riuscivo a capire cosa provasse Mitzi per me (oh, non si era mai sognata di pronunciare la parola «amore»… ma di sicuro non aveva mai finto con me). Non riuscivo a far quadrare la Mitzi che avevo conosciuto così superficialmente e carnalmente su Venere, i cui unici segreti erano quelli dell’Agenzia, con quella sempre più misteriosa e imprevedibile della Terra.
Non riuscivo a capire niente… tranne una cosa, che si era fissata chiaramente nella mia memoria. Così, quando finii il turno in fabbrica, mi ripulii ben bene, mi pettinai e mi presentai all’ufficio di vetro del principale. Semmelweiss non era solo; l’uomo che era con lui veniva a trovarlo almeno una volta alla settimana, si fermava a volte per ore, uscivano a pranzo insieme e tornavano malfermi sulle gambe. Sapevo di cosa parlavano: di niente. Tossicchiai sulla soglia e dissi: — Scusatemi, signor Semmelweiss.
Lui grugnì, con il tono di chi vuol dire: non vedi che sono in riunione? — Aspettate un minuto, Tarb! — E tornò al suo amico. La conversazione verteva sulle loro pedauto.
— Accelerazione? Senti, avevo una vecchia Ford a spinta esterna. La prima pedauto che abbia avuto, di seconda mano, un vero rottame… ma quando dovevo ripartire a un semaforo, bastava che mettessi fuori il piede, e zac! passavo davanti anche ai taxi!
Tossii ancora. Semmelweiss rivolse un’occhiata disperata al cielo e si voltò verso di me. — Perché non siete alla vostra macchina, Tarb?
— Ho finito il turno, signor Semmelweiss. Volevo chiedervi una cosa.
— Uffa — disse lui guardando l’amico, le sopracciglia sollevate con aria di disprezzo… disprezzo per me, che una volta avevo un bicicletta a batteria! — Cosa diavolo volete?
— È per quello spazio vuoto, signor Semmelweiss. Conosco qualcuno che potrebbe affittarlo. Un’Agenzia.
Lui spalancò gli occhi. — Diavolo, Tarb! Perché non me l’avete detto subito? — E da quel momento tutto filò liscio come l’olio. Certo che potevo portare Mitzi e Haseldyne a vedere il posto. Certo che potevo uscire prima dal lavoro per portarli lì. Certo che potevo interromperlo, diavolo, Tarb, sicuro, ogni volta che volete! Andava tutto nel migliore dei modi possibili… Tranne forse per me, e per tutte le preoccupazioni, le paure, i dubbi a cui non riuscivo a dare neppure un nome.
Quando finalmente riuscii a parlare con Mitzi per telefono, lei era molto irritata, esattamente come se fosse arrabbiata con se stessa per avermi incoraggiato… e doveva essere proprio così. Sollevò obiezioni, tergiversò; alla fine ammise che sì, aveva detto che avevano bisogno di un posto segreto. Però doveva sentire Haseldyne.
Ma quando la richiamai, come mi aveva detto, dieci minuti più tardi, disse: — Ci saremo. — E così fu.
Quando andai loro incontro, sul marciapiede sporco fuori dalla fabbrica, Haseldyne sembrava assai più irritato di quanto non lo fosse stata Mitzi per telefono. Gli porsi la mano. — Salve Des — dissi.
Lui la ignorò. — Hai un aspetto orribile — disse con evidente antipatia. — Dov’è questo buco che vuoi rifilarci?
— Da questa parte, prego — dissi, come un portiere, e li feci entrare con un inchino. Non dissi loro di stare attenti allo sporco. Potevano vederlo da soli. Non mi scusai per lo sporco, né per i borbottii, i ruggiti, qualche volta i colpi di pistola delle macchine che sputavano fuori il loro milione di anelli di tenuta all’ora; e neppure per Semmelweiss che ci salutava untuosamente dal suo cubicolo; né per la puzza; né per il quartiere. Né per qualsiasi altra cosa. Erano loro a dover prendere la decisione. Non avevo intenzione di pregarlo.
Una volta saliti al piano di sopra, fu un po’ meglio. Quei vecchi edifici erano stati costruiti solidamente. Si sentivano le macchine, di sotto, ma solo come un mormorio lontano e non spiacevole. Le luci funzionavano sempre a intermittenza, e la polvere fece starnutire Mitzi. Ma loro sembrarono non accorgersene. Erano più interessati alle scale antincendio, al montacarichi, alle porticine con la scritta USCITA, che nessuno apriva da decenni. — Ci sono un sacco di entrate e uscite — disse Desmond rudemente. Annuii, ma non l’avevo veramente sentito. Ero perso nei miei pensieri. Era buffo. Con Mitzi nella stessa stanza con me, mi sembrava di essere più che mai lontano da lei. Forse ero solo intossicato. Anche le pillole avevano il loro effetto, e anche se la perdita di peso aveva rallentato, non si era arrestata, né era finita la mia insonnia. Eppure c’era qualcosa di molto strano…
— Tarb! — chiamò bruscamente Haseldyne. — Vi state addormentando? Vi ho chiesto dei trasporti.
— Trasporti? — Contai sulle dita. — Vediamo, ci sono due linee metropolitane, tutti i bus dell’asse nord-sud, quelli che attraversano la città, la striscia pedonale. E naturalmente i taxi.
— E la disponibilità di energia? — chiese Mitzi con uno starnuto. — Ce n’è di energia. Se no con che cosa farebbero funzionare le macchine? — spiegai.
— Voglio dire, è affidabile? Non ci sono interruzioni?
Alzai le spalle. Non ci avevo fatto caso. — Credo di no — dissi.
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