Frederik Pohl - Gli antimercanti dello spazio

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Sono passati trent’anni da quando Frederik Pohl inventò quei
che Kingsiey Amis nelle sue
mise al disopra dello stesso
di Orwell. Fu allora che dagli uffici di Madison Avenue le grandi compagnie pubblicitarie assunsero il controllo della Terra, ma fecero lo sbaglio di mandare un’astronave sul pianeta Venere. Oggi Venere è il rifugio dei refrattari e dei ribelli, il simbolo dell’anti-pubblicità, la bandiera dei nemici della produzione e del consumo. I rapporti tra i due pianeti si fanno ogni giorno più difficili. La situazione insomma è così tesa, che Frederik Pohl ha sentito la necessità di scrivere un nuovo romanzo sullo scottante argomento. E l’ha scritto.

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— Tenny! — gridò una voce. — Oh, Tenny, grazie al cielo ti ho trovato… Sei nei guai!

Socchiusi gli occhi, nella polvere e nel riflesso del sole. Un «taxi» Uygura due ruote mi si era fermato vicino, e ne stava scendendo Gert Martels, con la faccia preoccupata. — Il colonnello è sul piede di guerra! Dobbiamo ripulirti prima che ti trovi!

Mi mossi incespicando verso il suono della sua voce. — Al diavolo il colonnello — gracchiai.

— Ti prego, Tenny — mi implorò, — sali sul taxi. Stenditi giù, così se passa la Polizia Militare non ti vede.

— Che mi vedano! — La cosa strana del sergente maggiore Martels, era che continuava a sparire: per un po’ era una figura di fumo nero, contro il cielo accecante; per un po’ era perfettamente chiara, e potevo perfino leggere l’espressione sul suo viso: preoccupazione, ribrezzo; poi, curiosamente, sollievo.

— Hai un attacco cardiaco! — gridò. — Grazie al Cielo! Il colonnello non potrà dire niente di fronte a un attacco cardiaco! Autista! Sai dove essere ospedale militare? Vai presto, bene? — E venni trascinato sul carrettino dalle braccia forti di Gert Martels.

— Chi ha bisogno di un ospedale? — chiesi rabbiosamente. — Io non ho bisogno di nessun ospedale. Tutto quello che mi serve è una Mokie… — Ma non ebbi la mia Mokie. Non ebbi niente. Anche se l’avessi avuta, non avrei potuto farmene niente, perché proprio in quel momento il cielo si oscurò e mi si chiuse attorno come un bozzolo di lana nera, e per dieci ore non seppi più niente.

2

Non furono ore oziose. La prescrizione per l’attacco di cuore era: reidratazione; fresco; riposo. Fortunatamente era la stessa indicata per i postumi di una sbronza. Ebbi quanto ordinato dal dottore. È vero che in quel momento non lo sapevo, perché all’inizio ero incosciente, e in seguito imbottito di sonniferi. Avevo una vaga consapevolezza di aghi con soluzioni saline e zuccherose che ogni tanto mi venivano infilati nel braccio, e di essere costretto a svegliarmi per ingoiare immense quantità di liquidi. E i sogni. Oh, i sogni. Sogni brutti. Sogni di Mitzi e Des Haseldyne che se la spassavano come maiali nei loro lussuosi attici, e si sganasciavano dalle risate quando pensavano a quel povero scemo di Tennison Tarb.

E quando mi svegliai, finalmente, pensai che stavo ancora sognando, perché c’era un sergente chino su di me con un dito sulle labbra. — Tenente Tarb? Mi sentite? Non dite niente… Fate solo cenno di sì, se potete…

Il mio errore fu di fare come mi aveva detto. Feci cenno di sì. La cima della testa mi si staccò, e rotolò in terra, esplodendo di dolore ad ogni rimbalzo.

— Immagino che abbiate un gran mal di testa, vero? Peccato… sentite, c’è un problema.

Il fatto che ci fosse un problema non era una novità per me. Restava solo da sapere a quale problema si riferisse. Sorpresa: non era nessuno di quelli di cui fossi consapevole, e non era tanto un problema mio, quanto di Gert Martels. Guardandosi intorno per vedere se arrivava l’infermiera, il sergente si chinò così vicino al mio orecchio che il suo fiato mi faceva solletico ai peli, e sussurrò: — Gert ha quel brutto vizio, lo saprete…

— Quale brutto vizio? — chiesi.

— Non lo sapete? — Sembrò sorpreso, poi imbarazzato. — Be’ — disse con riluttanza, — lo so che sembra proprio una cosa schifosa, ma un sacco di gente quando si trova esposta a ogni genere di influenza, lontano dalla civiltà…

Mio malgrado, e contro ogni buon senso, mi misi a sedere. — Sergente — dissi — non ho la più pallida idea di quello di cui state parlando.

Lui disse: — È andata con i selvaggi, tenente. E non ha l’equipaggiamento protettivo. E mancano due ore all’ora X.

Questo sì fu un colpo. — Vuoi dire che l’operazione e per questa notte? — gridai.

Lui fece una smorfia. — Per favore, abbassate la voce. Sì, comincia a mezzanotte, e adesso sono le dieci.

Lo fissai. — Questa notte? — ripetei. Dov’ero stato? Come mai non l’avevo saputo? Naturalmente era un’informazione segreta, ma di sicuro ogni soldato nel campo doveva saperlo da ore.

Il sergente annuì. — L’hanno anticipata perché il tempo è perfetto. — Adesso che sapevo cosa guardare, riconobbi il cappuccio di tessuto polarizzato sulle sue spalle, e la grossa cuffia che gli pendeva sotto il mento. — Il fatto è…

Un rumore in fondo alla sala. Una porta che si apriva. Una luce.

— Accidenti — imprecò il sergente. — Sentite, ho da fare. Andate a cercarla, va bene tenente? C’è un indigeno che vi aspetta giù, con l’equipaggiamento protettivo per tutti e due… vi porterà da lei… è … — Rumore di passi che si avvicinavano. — Mi scusi tenente — disse ansimando — devo andare.

E se ne andò.

Non appena l’infermiera ebbe fatto il suo giro e se ne fu andata, scivolai fuori dal letto, mi infilai i vestiti, uscii quatto quatto dal reparto. La testa mi martellava, e sapevo che l’ultima cosa di cui avevo bisogno era una nota per aver lasciato senza permesso l’ospedale, da aggiungere a tutte quelle che già avevo sul mio dossier. La cosa buffa fu che non esitai un solo istante.

Non esitai neppure abbastanza per rendermi conto che era strano. Solo più tardi mi venne in mente che c’erano state molte occasioni, nel passato, in cui qualcuno ci aveva messo lo zampino per salvarmi da qualche impiccio. Mai prima di allora avevo avuto difficoltà a dimenticarmene, quando si era presentata l’occasione di ripagare i favori. L’unica cosa che pensai, fu che avevo un debito verso Gert, e che lei aveva bisogno del mio aiuto. Così andai… fermandomi una volta sola all’ingresso dell’ospedale per rendermi un paio di Mokie dal distributore automatico. E sono convinto che se la macchina non fosse stata proprio lì, sarei anche andato senza le Mokie.

L’indigeno mi stava aspettando come annunciato, non solo con l’equipaggiamento completo per due, ma anche con asino e carretto. L’unica cosa che gli mancava, era la conoscenza dell’inglese. Ma dal momento che pareva sapere dove andare senza bisogno di istruzioni, la cosa non fu un problema.

Era una notte calda e buia, così buia che quasi metteva paura. Si poteva vedere il cielo! Non voglio dire il cielo diurno, o anche il cielo notturno quando le luci gli danno quella luminosità rossastra. Voglio dire le stelle. Tutti hanno sentito parlare delle stelle, ma quanti le hanno veramente viste? E ce n’erano milioni, in ogni punto del cielo, abbastanza luminose da vederci…

Abbastanza perché ci vedesse l’asino, almeno, perché non sembrò avere difficoltà a trovare la strada. Avevamo lasciato le strade principali, e ci dirigevamo verso le colline vicine. Fra noi e le colline c’era una valle. Ne avevo sentito parlare. Era una specie di curiosità da quelle parti, perché era fertile. Quello che rende il Gobi un gobi, ossia un deserto di sassi, è il vento e la siccità. La siccità trasforma la terra in polvere. Il vento la soffia via, finché quello che resta sono un’infinità di chilometri quadrati di pietra. Solo che qua e là, in qualche posto isolato, una valle, o il lato riparato di una collina, c’è un po’ di acqua, e questi posti trattengono la terra. Altri ufficiali mi avevano detto che quella era quasi come un vigneto italiano, con grappoli d’uva e ruscelli mormoranti. Non avevo pensato che valesse la pena di visitarla. Né avrei progettato di vederla in quel momento, di notte, quando l’inferno stava per scatenarsi entro… gettai un’occhiata all’orologio, brillante nella notte cupa… fra circa un’ora e cinque minuti. E in effetti non la visitammo. L’indigeno prese un sentiero che passava attorno al vigneto, fermo il carro, mi fece segno di scendere e mi indicò la cima di una collina.

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