La mattina seguente fu una copia del mio primo giorno: arrivò il maggiore, con un codazzo di medici, e mi disse che ero dimesso e dovevo presentarmi al quartier generale entro venti minuti. L’unica bella notizia fu che il colonnello non c’era. Aveva ordinato a se stessa di raggiungere il lusso di Shanghai, non appena l’operazione era terminata, per far rapporto al Comando Generale. — Ma non crediate di cavarvela per questo, Tarb — mi disse severamente il tenente colonnello che aveva preso il comando. — La vostra condotta è inconcepibile. Sareste un disonore per l’esercito anche come consumatore, e invece siete un pubblicitario. State attento a quello che fate, perché vi tengo d’occhio!
— Sissignore. — Cercai di tenere una faccia impassibile, ma credo che non ci riuscii, perché lui ringhiò: — Credete di andare a casa, vero, così non dovrete più preoccuparvi per queste cose?
Be’, era esattamente quello che avevo pensato. Era corsa voce che il cambio delle truppe sarebbe cominciato quello stesso giorno.
— Scordatevelo — disse con decisione. — I cappellani fanno parte del Personale, e compito del Personale è di far partire tutti gli altri prima di tornare a casa. Non andrete da nessuna parte, Tarb… A parte in prigione, se non vi mettete in riga!
Così ritornai mogio mogio al mio ufficio, e al sergente maggiore Martels. — Tenny… — cominciò lei imbarazzata.
Scattai: — Tenente Tarb, sergente!
Lei arrossì, inghiottì. — Sì, signore . Volevo solo scusarmi per il mio… il mio…
— Il vostro disgustoso comportamento, volete dire — finii severamente. — Sergente, la vostra condotta è inconcepibile. Sareste un disonore per l’esercito anche come… come soldato semplice, e invece siete un sottufficiale… — Mi fermai lì perché quelle parole mi ricordavano qualcosa. La fissai in silenzio per un momento, poi mi lasciai cadere pesantemente sulla sedia. — Oh, al diavolo, Gert. Dimentica quello che ho detto. Siamo fatti della stessa pasta.
Il rossore le lasciò il viso. Rimase lì incerta, strisciando i piedi a terra. Alla fine disse a bassa voce: — Posso spiegarti, per quella cosa sulla collina, Tenny…
— No, non puoi. Non è necessario. Portami una Mokie.
Il tenente colonnello Headley forse voleva davvero tenermi d’occhio, ma aveva solo due occhi, e per le operazioni di rientro aveva bisogno di usarli tutti e due. Le ingombranti apparecchiature limbali vennero impacchettate e caricate sugli aerei da trasporto, le truppe di assalto le seguirono nelle stive, e via nel cielo. Quando gli aerei tornavano non erano pero vuoti. Erano pieni di truppe ausiliarie, e soprattutto di merci. E le merci si volatizzavano come neve al sole. Ogni mattina, file di indigeni aspettavano l’apertura degli spacci, e tornavano alle loro capanne con le braccia piene di tavolette di dolci, sacchetti di patatine, amuleti Thomas Jefferson in Puro Pseudo-Argento per le mogli e i bambini. L’operazione era stata un completo trionfo. Non si erano mai visti consumatori così devoti come quei selvaggi, e mi sarei sentito orgoglioso di aver partecipato alla grande crociata se mi fosse restato un po’ di orgoglio. Ma questa era una merce che i Servizi Ausiliari non potevano fornire.
Se avessi avuto qualcosa da fare, sarebbe stato più facile. L’ufficio del cappellano era il posto più tranquillo della Riserva. Le vecchie truppe non avevano nessun motivo di venire a lamentarsi da me perché erano in procinto di tornare a casa; quelle ausiliarie erano troppo indaffarate. Gert Martels ed io, senza dirci una parola, ci eravamo divisi il lavoro. La mattina io sedevo da solo, nell’ufficio vuoto, trangugiando Mokie e desiderando di essere… qualsiasi cosa, e in qualsiasi posto, tranne quello che ero e dove ero. Perfino morto. Il pomeriggio lei prendeva il mio posto, e io me ne andavo al circolo ufficiali a Urumqi, litigando per il canale da guardare, e aspettando ore ed ore inutilmente nel tentativo di telefonare a Mitzi, o a Haseldyne, o al Vecchio… o a Dio. Provai perfino con l’ufficio del tenente colonnello, un paio di volte, nella speranza di farmi spedire via. Il momento buono per tornare a casa da eroe è prima che tutti si siano dimenticati del perché siete stato un eroe, e già l’operazione Gobi stava sparendo dai notiziari Omni-V. Niente da fare. E continuava a fare un caldo d’inferno. Per quante Mokie ingurgitassi, le sudavo più in fretta di quanto le mandassi giù. Non mi pesavo più, perché i numeri che vedevo sulla bilancia cominciavano a spaventarmi.
Il venerdì era il giorno peggiore, perché non cercavamo neppure di tenere aperto l’ufficio. Mi facevo strada a fatica fino a Urumqi attraverso le masse di indigeni con i loro carri, carretti e biciclette, tutti con la luce del consumo che brillava nei loro occhi, mentre si dirigevano ai bazar della grande città, riservavo una stanza, mi rifornivo di Mokie, mi dirigevo verso il circolo ufficiali, per i miei interminabili litigi per l’Omni-V, e le mie chiamate telefoniche…
E un giorno Gert Martels mi aspettava fuori dal circolo. — Terry — mi disse guardandosi intorno, per essere sicura che nessuno ci sentisse, — hai un aspetto terribile. Hai bisogno di passare qualche giorno a Shanghai. E anch’io.
— Non ne ho l’autorità — dissi cupamente. — Prova a chiederlo al tenente colonnello Headley, se ne hai voglia. Forse ti lascerà andare. Me no di sicuro. — Mi fermai perché lei mi aveva messo davanti agli occhi due permessi. Sulla striscia magnetica c’era la firma di Headley.
— A cosa serve essere amici del sergente maggiore — disse Gert, — se non infila un paio di richieste di permesso nella timbratrice del colonnello, quando ce n’è bisogno? L’aereo parte fra quaranta minuti, Tenny. Vuoi venire?
Shanghai! Perla dell’Oriente! Alle dieci di sera eravamo in un bar galleggiante sul Bund. Stavo bevendo la decima, o forse era la dodicesima Mokie corretta, e adocchiavo le ragazze del bar, con i capelli a caschetto, chiedendomi se dovevo abbordarne una finché ero ancora in grado di reggermi in piedi. Gert beveva DNC liscio, e ad ogni sorso si raddrizzava sempre più, stava più attenta a parlare e gli occhi le diventavano più vitrei. Succedeva qualcosa di strano con Gert Martels. Non era una brutta donna, a parte le cicatrici che le attraversavano la guancia sinistra dall’orecchio alla mascella. Ma non le avevo mai fatto delle avances , né lei a me. In gran parte questo era dovuto al codice militare e ai guai che potevano capitare a fraternizzare fra ufficiali e graduati di truppa, ma tanti altri avevano rischiato e se l’erano cavata. Ed era passato tanto tempo da quella volta con Mitzi. — Come è successo? — chiesi, chiamando la cameriera.
Lei fece un singhiozzo molto femminile, e voltò gli occhi per guardarmi. Le ci volle un secondo o due per mettermi a fuoco. — Come è successo cosa, Tennison? — chiese quasi sillabando.
Avrei risposto alla domanda, ma in quel momento arrivò la cameriera e dovetti ordinare un’altra Mokie-and-Djinn, e distillato neutro di cereali per Gerty. Poi mi ci volle un momento per ricordare. — Ah, già — dissi, — volevo dire come è successo che tu e io non l’abbiamo mai fatto.
Lei mi rivolse un sorriso solenne. — Se vuoi, Tennison.
Io scossi la testa. — No, non voglio dire se voglio, voglio dire come mai non ci siamo mai, come dire, ispirati a vicenda. — Lei non rispose subito. Arrivarono i bicchieri, e quando ebbi finito di pagare la cameriera, e porsi il DNC a Gert, vidi che piangeva.
— Eh, senti — dissi, — non volevo far valere il mio grado, o qualcosa del genere. È vero? — chiesi guardandomi intorno per avere conferma. Non ricordavo esattamente come fosse successo, ma pareva che altre quattro o cinque persone si fossero sedute con noi. Tutti sorrisero e scossero la testa… volendo forse dire che non l’avevo fatto, o forse che non capivano l’inglese. Ma uno di loro almeno lo capiva. Il civile grassoccio. Si chinò verso di me e gridò per farsi sentire nel frastuono:
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