Frederik Pohl - Gli antimercanti dello spazio

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Sono passati trent’anni da quando Frederik Pohl inventò quei
che Kingsiey Amis nelle sue
mise al disopra dello stesso
di Orwell. Fu allora che dagli uffici di Madison Avenue le grandi compagnie pubblicitarie assunsero il controllo della Terra, ma fecero lo sbaglio di mandare un’astronave sul pianeta Venere. Oggi Venere è il rifugio dei refrattari e dei ribelli, il simbolo dell’anti-pubblicità, la bandiera dei nemici della produzione e del consumo. I rapporti tra i due pianeti si fanno ogni giorno più difficili. La situazione insomma è così tesa, che Frederik Pohl ha sentito la necessità di scrivere un nuovo romanzo sullo scottante argomento. E l’ha scritto.

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Che ci dispiacesse o no, non faceva nessuna differenza, perché non c’era altro posto dove poter andare, se non nelle stanze del motel. Non sarebbero state neanche tanto male, se la fureria avesse messo dei materassi sui letti per dormirci sopra. Così distendemmo la maggior quantità possibile di vestiti, e cercammo di prender sonno, nel caldo e nella polvere, mentre tutti quanti intorno tossivano, e da fuori arrivavano rumori strani. Il peggiore era una specie di ululato meccanico: «Aaaah», e qualche volta « Aaaah-ee! ». Mi addormentai chiedendomi quale macchinario primitivo facessero funzionare per tutta la notte. Chiedendomi cosa ci facessi lì. Chiedendomi se sarei mai tornato alla Torre, per non parlare del cinquantacinquesimo piano. Chiedendomi soprattutto che probabilità avessi di trovarmi un paio di Mokie, la mattina dopo, dal momento che la confezione da dodici che mi ero messo nello zaino era quasi finita.

— Sei Tarb? — gracchiò una voce aspra nel mio orecchio. — In piedi. Il rancio è fra cinque minuti, e il colonnello vuole vederti fra dieci.

Sollevai una palpebra. — Il che?

La faccia china sulla mia non si ritrasse. — In piedi! — ruggì, e mentre lo mettevo a fuoco, vidi che apparteneva a un uomo dalla pelle scura, accigliato, con le mostrine di maggiore e una sfilza di nastrini sulla tuta mimetica.

— Subito — farfugliai, e riuscii a ricordarmi di aggiungere «signore». La faccia non sembrò soddisfatta, comunque si allontanò. Mi spostai verso il bordo del letto, cercando di evitare le più aguzze e arrugginite delle molle (avevo metà del corpo ricoperto di graffi), e affrontai il problema di infilarmi i pantaloncini e la maglietta. Il problema si dimostrò risolvibile, anche se penso di averlo fatto nel sonno. Il problema di dove fosse il «rancio» non fu un problema per niente, perché dovetti solo seguire una lenta coda di soldati, con gli occhi rossi e la barba lunga, diretta verso quella che era denominata «Sala da Pranzo A». Perlomeno c’era il Caffeissimo. Meglio ancora, c’erano Mokie, anche se queste non le passava il governo, e persi momenti preziosi a farmi cambiare banconote in monete dalle poche facce familiari, che stavano attaccando i loro Om’Let. Naturalmente il distributore automatico inghiottì le prime tre monete senza darmi in cambio neanche una Mokie, ma al quarto tentativo ci riuscii; era cala, ma mi permise di affrontare il sole accecante con un po’ più di coraggio.

Trovare l’ufficio del colonnello fu molto più difficile. Nessuno dei nuovi arrivati, come me, aveva la più pallida idea di dove fosse. I veterani, a quanto pareva, erano ancora felicemente addormentati nelle loro brande, aspettando che la calca nella sala mensa diminuisse, in modo da potersi godere la colazione con comodo. Un paio di indigeni che si aggiravano con scope e secchi di acqua grigia e schiumosa (pur non mostrando segno alcuno di usarli) furono felicissimi di darmi indicazioni: ma dal momento che non avevamo un linguaggio comune, non riuscii a capire dove mi indirizzavano. Mi trovai così ai bordi del campo, superai un cancello, e un odore repellente mi assalì le narici, e nello stesso istante quel terribile Aaaah-ee! mi riempì le orecchie.

Il mistero dei rumori meccanici di quella notte fu chiarito. Con mio infinito disgusto scoprii che le macchine non erano macchine. Quella gente teneva degli animali. Animali vivi! Non in uno zoo, o impagliati, a dovere in qualche museo, ma m mezzo alle strade, che tiravano carretti, e perfino defecavano proprio dove la gente camminava. Ero capitato in una specie di posteggio per quelle creature. Vi giuro che per un attimo fui sul punto di vomitare la Mokie che avevo appena bevuto.

Quando riuscii finalmente a trovare l’ufficio del colonnello, ero naturalmente in ritardo di almeno venti minuti, ma avevo imparato alcuni fatti sul duro mondo in cui ero stato gettato. Gli animali che emettevano quel verso si chiamavano asini. Un tipo più piccolo di asino, con le corna, si chiamava capra, ma avevano anche polli, cavalli e yak. E ognuno di questi aveva un odore peggiore, e abitudini più disgustose, dell’altro. Quando finalmente capitai nei pressi di una costruzione in mattoni con la scritta: «Qg 3° Btg. & Comp. Coni.» sapevo di essere sulla buona strada per la mia prima reprimenda, ma non mi importava. C’era il condizionatore d’aria, e funzionava, e quando il primo sergente mi disse accigliato che avrei dovuto aspettare, e che il colonnello mi avrebbe mangiato vivo, l’avrei baciato, perché l’aria era,fresca, i suoni disgustosi provenienti da fuori erano attutiti… e vicino alla porta c’era un distributore di Mokie.

Il sergente fu facile profeta. Le prime parole del colonnello furono: — Siete in ritardo, Tarb! Cominciate male! Voi pubblicitari mi fate proprio venire i nervi!

In un’altra situazione, le avrei risposto per le rime, ma quella non era una situazione normale. Il colonnello era un libro aperto per me: una veterana con il petto pieno di nastrini guadagnati nelle campagne in Sudan, Nuova Guinea, Patagonia. Senza dubbio era venuta dalla gavetta, con l’antico odio dei consumatori per le classi superiori. Ingoiai le parole che mi salivano alle labbra, rimasi fermo sull’attenti più che potei e dissi: — Sissignora.

Lei mi guardò con lo stesso disgusto con cui io avevo guardato gli asini. Scosse la testa. — Cosa me ne debbo fare di voi, Tarb? Avete qualche capacità non indicata nella vostra scheda personale… cuoco, idraulico, cameriere?

Dissi indignato: — Signora! Sono un redattore pubblicitario di prima classe!

— Lo eravate — mi corresse lei. — Qui siete solo un ufficiale qualunque, e io devo trovarvi un lavoro.

— Ma senz’altro le mie capacità… la mia abilità nel creare una campagna promozionale…

— Tarb — disse lei stancamente, — tutta questa roba la fanno al Pentagono. Qui noi non ci occupiamo di strategia. Siamo solo quelli che la applicano. — Fece scorrere cupamente un elenco… esitò… proseguì… tornò indietro e mise il dito su una riga della tabella Organizzativa.

— Cappellano — disse soddisfatta.

Spalancai gli occhi. — Cappellano? Ma non ho mai… voglio dire, non conosco niente…

— Voi non conoscete niente di niente, tenente Tarb — disse, — ma fare il cappellano è un lavoro facile. Imparerete subito. Avrete un assistente che sa già tutto… e dovrebbe essere un posto dove non avrete la possibilità di combinare guai. Potete andare! E cercate di tenervi fuori dai piedi finché la campagna non sarà finita, così poi sarete un problema per qualcun altro.

Così cominciai la mia carriera come cappellano al Quartier Generale Terzo Battaglione e Compagnia Comando (pesanti proiettori limbici e schermi aerei): non l’incarico migliore del mondo, ma sempre meglio che andare porta a porta con la fanteria. Il colonnello mi aveva promesso un assistente esperto, e così fu. Il sergente maggiore Gert Martels aveva sul petto alquanto sporgente nastrini che risalivano alla Cambogia.

Quando misi piede nel mio dominio per la prima volta, mi salutò, con un saluto svogliato, ma con un sorriso caloroso. — Buongiorno, tenente, — disse con voce melodiosa. — Benvenuto al Terzo!

Mi accorsi subito che il sgt/mg Martels sarebbe stata la cosa migliore del mio incarico… be’, la seconda migliore, almeno. L’ufficio in se stesso era squallido. Era l’ex lavanderia del motel, e si vedevano ancora le macchie di detersivo e candeggiante dove c’erano state le macchine. Lungo le pareti correvano ancora tubi chiusi da tappi. Ma c’era l’aria condizionata! Era situata nel motel con le fontane e le piante, solo che ora le fontane funzionavano, e noi ultimi arrivati eravamo stati spostati negli alloggiamenti «regolari», in maniera che il resto del motel potesse accogliere gli uffici del QG. Suppongo che l’aria condizionata fosse la terza buona cosa, in ordine di importanza. Quella migliore di tutte era un distributore automatico di Mokie, e da come ronzava, capii che le Mokie ne sarebbero uscite ghiacciate. — Come facevate a saperlo? — chiesi. La sua faccia, bella per quanto segnata da cicatrici, si illuminò con un altro di quegli eccellenti sorrisi.

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